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Polemiche scolastiche

Una vecchia questione, riproposta anche da "Sergio Audano" che ha scritto su it.cultura.letteratura.italiana:
Vorrei avviare una riflessione, soprattutto con qualche studente o con qualche collega (insegno lettere in un Liceo sperimentale sia socio-psico-pedagogico sia linguistico): perchè leggere Manzoni?

Leggere o non leggere i Promessi Sposi?

Bel problema, e bel tormento. Fino ad ora, io li ho letti, non tutti interi, nella mia seconda (sperimentale linguistico Brocca). L’anno prossimo, non so.

Che ci stiamo a fare a scuola? Se la scuola serve, tra l’altro, a trasmettere la cultura (spero che non mi chiediate una definizione di cultura, per l’amor di Dio) allora non può dimenticare i classici. È vero che, secondo le nuove luci che ci illuminano, De André e Battisti sono meglio di Mozart e Rossini, ma, data l’età (eppure anch’io sentivo De André quando avevo diciott’anni) lasciatemi esprimere la mia preferenza per i classici. E nella letteratura italiana, di classici, di enorme importanza, ce ne sono tanti; peccato che siano quasi tutti vecchissimi. La cultura italiana ha dato il meglio di sé tra il Trecento e il Cinquecento. Poche letterature mondiali possono vantare - tutti insieme - un Dante e un Boccaccio e un Ariosto e un Machiavelli; senza contare almeno un paio di dozzine di altri

Poi è un po’ più dura. Nell’Ottocento, a parte i Promessi Sposi, le Operette Morali e Pinocchio (non sto scherzando: penso proprio che sia un classico, ingiustamente sottovalutato) la nostra prosa offre un panorama desolante. Non che manchino autori interessanti, decorosi, gradevoli, ma insomma, è il secolo di Balzac e Stendhal e Cechov e Dostojevski; mica di Verga e Fogazzaro.

Dunque, leggiamo i Promessi Sposi. Perché a scuola dobbiamo sforzarci di dare il meglio. Il Castelmagno, non le sottilette. Le sottilette i nostri ragazzi le mangeranno per tutta la vita; il Castelmagno, o glielo facciamo conoscere noi, o non sapranno mai che esiste.

Ma, ci sono molti ma. In primo luogo, è un libro gigantesco. Il problema è che non è assolutamente antologizzabile. Io penso che si possa dare una discreta idea generale della Divina Commedia presentando (bene) una decina di canti. Ma i Promessi Sposi è uno di quei libri che si devono leggere da cima a fondo. Magari con l’aggiunta della Storia della colonna infame.

Ed è un libro difficile. Sandrino è un seguace di Torquato: un bicchiere inzuccherato, per far bere l’amaro calice della dottrina. Una storiellina di due fidanzati, e di un trentenne infojato che concupisce la (neanche poi tanto) bella filandiera sedicenne. Ma i Promessi sono altro. Si parla di guerra, di peste, di amministrazione dello stato, di prezzo del pane, di rivolte popolari, di Shakespeare e di romanticismo e di classicismo, di Seicento e di Ottocento, di lingua italiana e di giusnaturalismo, di fede e di igiene pubblica, delle parti alte e delle parti basse della nostra umanità. E spesso se ne parla con un’aria un po’ svagata, come se si parlasse d’altro... Per l’insegnante, un lavoro di chiosa estenuante.

A queste difficoltà, che sono proprie del romanzo, se ne aggiungono altre, che si sono stratificate attraverso decenni di pratica scolastica. Non possiamo negare che i Promessi Sposi viaggiano portandosi dietro una certa puzza di sacrestia. Il nostro cattolicesimo italico un po’ alla buona - state bravi, non mettetevi nei guai, pregate la Madonna, e soprattutto non scopate se non siete sposati - si è appiccicato a un libro che, al suo apparire, forse lasciò di stucco anche un po’ di parroci. Don Abbondio si è preso una bella rivincita.

I Promessi Sposi - e qui forse qualche professoressa storcerà il naso - è il capolavoro del nostro Illuminismo. Il libro più volteriano che sia mai stato scritto in Italia. Fra i vari progetti che da anni coltivo, tra i fumi del vino novello, vi è quello di fare una lettura comparata dei Promessi e del Candide. A cominciare dalla guerra, per esempio. E Don Ferrante e il migliore di mondi possibili. E il nostro giardino e il sugo di tutta la storia. E magari anche la peste: se molti italiani si fossero letti con attenzione i capitoli dove si parla degli effetti disastrosi di una politica sanitaria imposta dai clamori di piazza, non avremmo mai subito l’umiliazione di un caso Di Bella.

Alessandro Manzoni fu non solo un grande scrittore - in prosa; in poesia, lasciamo perdere. Fu anche uno dei maestri del liberalismo italiano. Del liberalismo vero, non delle scimmiette urlanti di oggi. Sa distruggere con micidiale sarcasmo i miti reazionari e le utopie rivoluzionarie. Il suo nemico giurato è il "senso comune" - che contrappone fermamente al "buon senso". Stronca ferocemente la miscela demagogica nella quale sguazza la "moltitudine male e ben vestita"; quella moltitudine che, in ogni occasione, per sua sventura, trova "l’uomo secondo il suo cuore".

Alessandro Manzoni fu un vero liberale. Una specie ormai estinta, oggi che la parola "liberale" è usurpata da osceni cerretani, sconci imbonitori che si vantano di aver venduto il sole nel centro di Milano e hanno imposti in politica lo stile di Wanna Marchi; che, avendo accumulato miliardi con la pubblicità dei detersivi, si augurano un "bucato" pure per l’ordine giudiziario.

28 Novembre 2000

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