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Polemiche scolastiche

Quest’intervento fa seguito a vari filoni di discussioni sviluppatisi nell’inverno 2000-2001 su it.istruzione.scuola in risposta ad una domanda ricorrente: a che serve l’istruzione classica?

Perché i Greci studiavano il greco?

Nella Grecia classica, i pilastri dell’istruzione erano due: la Musica e la Ginnastica.

La Musica - noi diremmo la Letteratura, ma per i Greci la letteratura era poesia, e la poesia era sempre cantata - la Musica, dicevo, consisteva nell’imparare a memoria una certa quantità di versi. Omero, ovviamente, e poi brani dei lirici e dei tragici, da cantare nei festini.

La Ginnastica consisteva nell’affannarsi a sudare con la lotta, la corsa, il lancio del disco ecc., cioè tutte cose che non servono a niente - non servono nemmeno all’addestramento militare, tant’è vero che facevano ginnastica nudi (ginnastica da gymnòs, nudo). Invece un vero addestramento militare si fa in divisa: scarponi e fucile in spalla, e unò dué. (Veramente i Greci facevano ginnastica nudi anche perché erano tutti finocchi; ma questo è un altro discorso).

Perché i giovani Greci dedicavano tanta parte delle loro energie in cose che non servono assolutamente a niente?

I Greci avevano una bellissima parola greca per indicare qual era lo scopo di tutta questa fatica. E questa parola greca era: fitness.

Se uno si sfianca ben bene a fare ginnastica, in mezzo ad altri bei maschioni; poi si fa una doccia (i ginnasii, cioè le palestre, dei Greci, erano in genere situati accanto ad una fresca fontana); poi si unge per bene d’olio; alla fine si sente bene, a posto, in forma, allenato. In greco: he’s fit.

E perché uno si affaticava ad imparare a memoria Omero e i lirici e i tragici? Lo scopo era lo stesso. Sentirsi mentalmente a posto, allenato, in forma. In greco: to be fit.

I Greci erano dunque degli oziosi perdigiorno, che invece di studiare la Borsa on làin passavano la loro giovinezza a fare cose che non servono a niente?

Sarà; per intanto i Greci hanno costruito città; hanno inventato la matematica, il teatro, la medicina e la democrazia; hanno diffuso la moneta e l’alfabeto nel Mediterraneo; hanno preso a calci nel sedere l’impero persiano, il più potente impero dell’epoca. Alla fine un giovanottone viziato, che aveva studiato da Aristotele e sapeva a memoria l’Iliade (ma non aveva fatto nessun master in economia aziendale in America) è partito per farsi un giro dell’Asia, ha costruito una dozzina di Alessandrie e non si è fermato prima della valle dell’Indo.

I Greci sapevano a che cosa serve la scuola. Non serve a niente. E proprio per questo serve a qualcosa.

Poi sono arrivati i Romani. Loro erano un popolo pratico. Non perdevano tempo in chiacchiere e teoria. La loro filosofia di vita era: a che serve? E la risposta era invariabilmente: non serve fare quello che puoi comprare bell’e fatto.

La filosofia? Se proprio vuoi toglierti lo sfizio, puoi comprarti tutti i maestri di filosofia che vuoi. La poesia? Troverai sempre qualche schiavo tarentino che per due lire ti traduce i classici greci in bel latino. La ginnastica? Inutile sudare: puoi comprarti caterve di gladiatori, e mandarli nell’arena a scannarsi al posto tuo. Bei muscoloni lucenti d’olio e di sudore sotto il sole di mezzogiorno, e intanto tu te ne stai comodo in tribuna, all’ombra del velarium, a bere cocacola ghiacciata.

I Romani - come gli Americani d’oggi - hanno costruito un impero comprando i migliori cervelli da tutto il mondo. Perfino la loro religione era d’importazione. Priapo cazzuto è stato l’unico contributo romano alla storia dello Spirito. Tutti gli altri dei - Apollo e Dioniso, Iside e Serapide, Mithra e Gesù - venivano dal mercato internazionale delle fedi.

Una civiltà di questo genere è inevitabilmente una civiltà dello spettacolo. Se qualcosa serve, a questo mondo, sono i soldi. E a che cosa servono i soldi? A fare spettacolo. Gli imperatori romani furono grandissimi imprenditori di spettacolo, e furono grandissimi uomini di spettacolo essi stessi. Tutto andava bene, pur di ottenere l’applauso. Nerone si travestiva da Dioniso, e dava fuoco a Roma. Commodo si travestiva da Ercole, e affrontava i gladiatori nell’arena. Berlusconi si travestiva da liberale, e dava i comunisti in pasto alle belve - cosa di per sé non particolarmente spettacolare, poiché i comunisti sono in genere capacissimi di scannarsi da soli; ma lui si rivolgeva ad un pubblico di bocca buona.

Tutto questo, naturalmente, ha funzionato finché all’estero c’era qualcuno che non si chiedeva: a che serve? e continuava a produrre filosofi e maestri di retorica, dèi e profeti, medici e scultori.

Ad un certo punto anche all’estero cominciarono a chiedersi: a che serve? A che serve studiare matematica, quando hanno inventato le calcolatrici? A che serve studiare il latino, quando il mondo del bìsnis parla inglese? A che serve studiare la storia dell’arte, quando Vittorio Sgarbi guadagna miliardi sparando cazzate? Le scuole andarono in rovina. Riformatori ciclici sfrondarono e alleggerirono. I poeti cercarono di entrare nel Grande Fratello, i filosofi si riciclarono nel popolo delle partitae IVAE. Ben presto le fonti di approvvigionamento della manodopera intellettuale per Roma si inaridirono. Dopo un po’, le uniche scuole funzionanti erano quelle cristiane. Qualche imperatore pensò di finanziarle con il buono scuola - e fu il Medioevo.

In conclusione: perché i Greci studiavano greco? Che domanda cretina! Perché erano Greci, no? e che dovevano studiare: giargianese?

14 Gennaio 2001

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