Mercoledì 30 gennaio 2002    scrivimi@mauriziopistone.it    strenua nos exercet inertia    Hor.

CAPITOLO III

Complementi avverbiali.

§ 1. Complementi avverbiali. Il verbo che si trova nella proposizione, oltre a determinarsi direttamente coll’oggetto, può altresì farlo indirettamente per mezzo de’ complementi avverbiali, parole che determinano le modalità e le condizioni d’un’azione. Questi complementi possono essere o avverbii propriam. detti, o frasi formate con preposizioni; sia che costituiscano vere frasi avverbiali come a caso, a un tratto, in breve ecc., sia che conservino al sostantivo tutto il suo valore come nella città, nella campagna, durante la notte, intorno alla casa, davanti al giudice, contro i nemici ecc. (Vedi la Gramm., P. II, cap. XXVIII, e la Sintassi, P. I, cap. XXV e XXVI). I complementi avverbiali modificano, quali il solo verbo, quali anche aggettivi, avverbii, e quei sostantivi che contengono senso di azione o di stato, p. es. amore (azion di amare), coraggio (essere coraggioso) ecc. ecc. Noi, lasciando al vocabolario tutti quei complementi che hanno chiaro in sè stessi il significato e la costruzione, spiegheremo soltanto quelli più semplici e più generali, che si formano con preposizioni proprie e che, appunto per la loro semplicità, comprendono in sè tutti gli altri, mentre per la moltiplicità dei significati che possono avere, sono assai difficili ad usarsi bene.

§ 2. Luogo. Nell’indicare il luogo vuolsi distinguere il termine, dove si sta (stato in luogo), il luogo o termine, verso il quale si va (moto a luogo), che corrispondono agli avverbii qui, qua, costà, quivi, ecc.; il luogo o termine, dal quale si viene (moto da luogo), che corrisponde alle frasi avverbiali di qua, di là ecc. e il luogo, dentro il quale uno si muove (moto per luogo), che corrisponde alle frasi avverbiali per qua, per qui, per di là ecc.

Per esprimere stato in luogo e moto a luogo si usano le prep. a ed in, articolate o no, secondo il senso o determinato o generico che si attribuisce al sostantivo. (Vedi P. I, cap. XIII, § 33).

La prep. a indica vicinanza, aderenza a qualche cosa o direzione verso qualche cosa. Essere alla porta, sedere a tavola, giacere alla riva d’un lago, stare al sole, al coperto, al sereno, al fuoco; Ponte alle Grazie o a S. Trinita, Ponte a Ema ecc. ecc. – andare alla porta, al mare, al sole, a tavola, volgersi a destra, a sinistra, paese situato a oriente o all’oriente, luogo vicino a Firenze, esser presente ad un fatto, andare a mangiare, a dormire ecc. guardare ad una cosa.

Quindi si adopera sempre a per indicare il luogo, verso il quale si va; p. es. vado a Firenze, vado a Roma, vado al giardino, alla chiesa ecc. (V. § seg.).

§ 3. La prep. in denota l’interno o la superficie di un luogo; p. es. essere in città, nel giardino, in chiesa, in casa ecc.; stare in mare, in terra, in nave, portare in tavola, avere in capo q. cosa ecc. Quindi si adopera regolarmente in col verbo entrare e con altri verbi di moto usati in simile significato; p. es. entro o vado in Firenze, nel giardino, in mare ecc. Si adopera poi sempre, quando il luogo, dove si va o dove si sta, è un regno od una provincia, o una isola grande; p. es. sono o vado in Ispagna, nella China, in Cipro (Come se in Francia o in Ispagna andar volesse. Boccaccio), o un nome comune di luogo, preso in senso proprio e materiale; p. es. sono nel campo (al campo vorrebbe dire all’accampamento), in un luogo, in camera; sto in giardino, sto o vado in campagna ecc.

§ 4. Coi nomi di città e terre per significare stato in luogo si usa più spesso a, quando non importa escludere i dintorni; p. es. Vivo, abito a Firenze, a Roma (sia dentro, sia fuori) ecc. Anche con alcuni nomi comuni, per indicare non tanto la dimora in un luogo, quanto l’occupazione che vi si fa, si usa a; p. es. sono al teatro (cioè allo spettacolo), al ballo, allo studio, alla scuola od a scuola, al banco, sono o sto a casa (cioè non passeggio), alla campagna, da risguardarsi come, frasi o locuzioni avverbiali. Con infiniti: stare a sedere, a riposare, a dormire, a giuocare ecc. (Vedi P. I, cap. XX, § 14).

Anche in fa talvolta le veci di a, sia per indicare vicinanza: abitavano in porta Salaja. Boccaccio; sia per indicar direzione, quando si premette ad avverbii locali; p. es. volto in qua, in là, in su, in giù ecc. (non a qua ecc. vedi P. I, cap. XXV, § 9). Ognuno in giù tenea volta la faccia. Dante.

La prep. su (o in su) che propriamente indica superiorità, può far le veci di in, quando basta indicare la sola superficie d’un corpo; p. es. scriver su un libro (anche in un libro), essere sulla strada, sulla piazza ecc., gettare sul o in sul viso, porre sulla o in sulla tavola. Mi leggerebbe in viso come sur un libro. Manzoni: – può far le veci di a, quando vogliasi indicare una prossimità minore; p. es. stare sull’uscio (presso l’uscio, meno determinato che all’uscio), Francoforte sul Meno, sull’Oder, sulla riva del fiume (presso la riva). Siede la terra dome nata fui Sulla marina, dove il Po discende. Dante.

§ 5. Anche la prep. da può servire a segnare stato in luogo o moto a luogo nei seguenti casi:

coi nomi lato, canto, parte, banda, strada, via ecc. Da un lato il monte Vesuvio, dall’altro i campi Elisi. Ganganelli. – Le difficoltà intendo di lasciarle da parte. Leopardi. – Da che parte si va per andare a Bergamo? Manzoni. Così dicesi tener da uno per tener la parte d’alcuno;

coi nomi propri o comuni di persona o cosa personificata, per indicare il luogo, dove essa abita o si trova (corrisponde a presso, franc. chez). Adunque, disse la buona femmina, andatevene da lui. Boccaccio. – Assai prima di sera andò da Teresa. Foscolo. – Renzo rientrò dalle donne. Manzoni. – Un momento e son da te. Grossi;

coi nomi di chiese, edifizi ecc. Stare da S. Maria, Abitare da S. Giorgio (cioè presso, nella contrada di). Passare da un luogo, cioè presso o per un luogo.

§ 6. Moto da luogo. Per esprimere moto da luogo si usano ora da, ora di con gli articoli o senza, secondo i casi. La prep. da (corrispondente ad a) indica propriamente il discostarsi dall’esterno d’un luogo, la prep. di (corrispondente ad in) segna piuttosto il partire dall’interno d’un luogo, ossia l’uscirne fuori. Presso gli antichi nostri scrittori. questa differenza si osservava fedelmente anche colla prep. articolata del; p. es. Partirsi dell’isola. Boccaccio. – La Giannetta uscì della camera. Boccaccio. E invece: Credendo lui esser tornato dal bosco. Boccaccio. – Tanto dal muro si scostano ecc. Boccaccio.

Nell’uso moderno si adopera di, quando mancano gli articoli, specialmente se il verbo sia di tal natura da significare chiaramente il moto dall’interno d’un luogo (p. es. uscire): si adopera regolarmente da e non di, quando vi sono gli articoli, benchè si possa, per eleganza, seguire talvolta l’uso degli antichi. Quindi: partir di casa, uscir di prigione, muoversi di eamera, scender di letto, cavar di bocca, toglier di mano ecc.; venir di casa, cacciar di città e viceversa; uscir dalla prigione, muoversi da una camera, togliere dalle mani; venire e tornare da casa, da scuola e coll’inf. tornar da cenare, venire da far colezione. Coi nomi proprii di città o villaggi preferiscesi da, quando si ha riguardo al termine, dove si va; p. es. da Roma andai a Milano; si preferisce di, quando si ha riguardo al termine, donde si esce: vengo di Firenze, esco di Siena. Nelle date delle lettere o de’ documenti si usa più spesso di. Di Roma, di Milano, di Varlungo ecc. Coi nomi di provincia o nazione adoprasi sempre di o dal: p. es. vengo d’Inghilterra o dall’Inghilterra, parto di Toscana o dalla Toscana.

§ 7. Moto per luogo. Per esprimere il moto a traverso o per entro ad un luogo si usa la prep. per. Giro per la camera, passeggio per la piazza, trovo uno per via o per la via, vado per acqua, viaggio per mare, per terra, entro per la finestra o per l’uscio. Per me si va nella città dolente (parla una porta). Dante. – Ella propose d’andar per lago fino a Lecco. Grossi. – Per aspri monti e per selve aspre trovo Qualche conforto. Petrarca. – E per mare e per terra ad un ricco uomo, come tu sei, ci è tutto pien di pericolo. Boccaccio.

Quanto a per locale nel senso di scopo, vedi più oltre.

Su per adoprasi spesso nel moto per luogo. Gli uomini e le donne vanno in zoccoli su pe’ monti. Boccaccio. – Andava passo passo su per le rive di quel fiume. G. Gozzi. – Già montavam su per gli scaglion santi. Dante. (Vedi P. I, cap. XXVI, § 10).

§ 8. Complementi locali correlativi sono da .... a; di .... a od in: Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevol parte d’Italia. Boccaccio. – Di selva in selva dal crudel s’invola. Ariosto. – Tu m’hai di servo tratto a libertate (libertà). Dante. – Bisogna dirmi tutto dall’a fino alla zeta. Manzoni.

§ 9. Luogo in senso traslato. Le medesime preposizioni che servono a indicare le relazioni di luogo in senso proprio, servono anche a indicarle in senso traslato. P. es.: stare in gioja, in pena, in dubbio, star fermo nella propria opinione, rimanere in errore; nel parlar poco è gran virtùmuovere alcuno a riso, a pianto, a ridere, a piangere ecc.; dare nelle furie, nelle smanie ecc.; giungere al compimento dei proprii voti, correre agli estremi, venire in odio, in amore ecc. – astenersi, cessare, liberarsi, difendersi, riposarsi, scampare da q. c. E con sostantivi ed aggettivi: la persistenza nel dolore, la perseveranza nel bene, l’ostinazione nell’errore: fermo nel suo proposito, ostinato nel suo capriccio: la tendenza al bene, l’aborrimento dal male; uomo inclinato, disposto alla virtù; sicuro da ogni pericolo; diverso, differente da tutti gli altri; il divario da una cosa all’altra ecc. E in correlazione: passare dalla gioja al pianto, trascorrere di vizio in vizio ecc. Con due aggettivi: di lieto farsi pensoso; di muto divenir loquace; di tristo mutarsi in buono ecc.

§ 10. Tempo. Il tempo si può determinare con in, a, di ecc. ed anche spesso senza preposizione alcuna.

In segna in generale lo spazio di tempo, dentro il quale un fatto accade. Io intendo di raccontare cento novelle, raccontate in dieci giorni da un’onesta brigata. Boccaccio. – Si giunge in pochi giorni a Bologna. Alfieri. – Si usa pure comunemente per indicare la data di un avvenimento coi nomi anno; mese, giorno o coi nomi speciali di ciascun anno, mese o giorno, o parti del giorno; p. es. nell’anno ecc., nel mese di ecc., nel Gennaio, nell’Aprile ecc., nel giorno di ecc., nel martedì di, nella sera di ecc. Nacque nel 1389. Machiavelli.

La data s’indica spesso, in modo più indeterminato, senza preposizione alcuna; p. es. un giorno, una notte, una mattina, questa mattina, questa sera avvenne o è avvenuto ecc., la notte, il giorno, la sera vado ecc. La mattina appresso si fece chiamare il Consiglio. G. B. Adriani. – Esso continuava a germogliare il 22 settembre dell’anno 1612. Manzoni. – Venerdì 15 febbraio fui a visitare il sepolcro del Tasso. Leopardi. – Calandrino si levò la mattina. Boccaccio. – Ciascun anno, il giorno delle Pentecoste, con grande pompa davano ai nuovi uomini le insegne. Machiavelli.

Nella chiusa delle lettere e de’ documenti si può accennare il tempo anche senza gli articoli, p. es. 24 Aprile 1860.

È da fuggirsi il dire per abitudine alla mattina o al mattino, alla sera, al giovedì; p. es. alla mattina soglio fare una lunga passeggiata, invece di la mattina.

§ 11. A segna con precisione il punto o momento di tempo, in cui accade qualche cosa; p. es. alle due, alle tre, alle quattro, all’ora fissata, al momento opportuno, allo spuntar del sole, all’alba, al tramonto, a sera. Si usa pure comunemente per indicare nelle date il giorno del mese; p. es. ai tre di Maggio, ai quattro d’Aprile ecc. (Vedi P. I, cap. V, § 3). Fu la detta rotta a’ dì 11 di giugno, il dì di S. Barnaba. D. Compagni. – Tornato di campagna malato ai sedici di febbrajo, non uscii mai di camera. Leopardi.

In senso meno determinato si adopera sul o in sul; p. es. sul principio dell’anno, sulla sera, aull’imbrunire, sul cader del sole ecc. La mattina in sull’alba vi si raunano di molte schiere d’uccelli. Caro. – Usano di cantare in sulla mattina allo svegliarsi. Leopardi. – Tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio. Manzoni.

Altre volte a ha senso più largo ed equivale a nel. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare ecc. Manzoni. – Alla primavera la villa ti dà grandi sollazzi. Pandolfini.

§ 12. Di specifica la qualità del tempo. Passeggio di giorno, di notte mi riposo. Di sera, di mattina, di primavera, d’inverno, di maggio, di giovedì, di quaresima, di buon mattino, di buon’ora ecc. Di primavera (il giardino) è pieno di rose e di gigli ecc. di state vi sono de’ papaveri ecc. di questo tempo uve infinite ecc. Caro.

§ 13. Per segna il tempo, durante il quale si estende e continua il fatto (tempo continuato). Fece in Alba sua dimora Per trecent’anni ed oltre ecc. Dante. – Se posso tener a bada per questi pochi giorni quel ragazzo, ho poi due mesi di respiro. Manzoni. Segna pure in generale un’occasione, una ricorrenza; p. es. per pasqua, per natale, per ceppo, per befana, per capo d’anno ecc. ti verrò a trovare (modo più indeterminato che se si dicesse a pasqua, a capo d’anno ecc.).

§ 14. Fra o tra segna un tempo inoltrato o futuro (equiv. a dopo) p. es. fra giorno, fra notte. Quando fu un pezzo fra giorno ecc. Sacchetti. Tra otto o nove mesi ci rivedremo. Manzoni.

§ 15. Complementi temporali correlativi sono di .... in, di .... a, da .... in, da .... a ecc. Da sera a mane (mattina) ha fatto il sol tragitto. Dante. – Così, d’oggi in domani, d’ora in ora, di giorno in giorno, di quando in quando, di qui a due giorni, d’ora innanzi, d’allora in poi ecc. ecc.

§ 16. Causa o ragione. Per significare la causa o la ragione di qualche fatto si usano le prepos. per, da, di.

Per indica più propriamente la ragione. Presero i Vandali, per le ragioni dette, volentieri quell’impresa. Machiavelli. – Per ogni diletto e ogni contentezza che hanno cantano. Leopardi. – Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, or lo dibatteva in aria, come per minaccia. Manzoni. – Per la sete l’uno mori e l’altro era presso a morte. Cavalca.

Nelle preghiere e ne’ giuramenti. Non dir queste cose per amor del cielo. Manzoni. – Per le nuove radici d’esto (di questo) legno Ve giuro ecc. Dante. – Tu li prega Per quell’amor ch’i (li) mena, e quei verranno. Dante. – Dicesi: per pietà, per carità, per favore, par gentilezza ecc.

Di rado si usa per in costruzione passiva (vedi P. I, cap. XXIII, § 15 e 16).

§ 17. Da, conforme alla sua natura di complemento locale (vedi qui addietro, § 6) segna propriamente l’origine, e quindi la causa occasionale di un fatto, specialmente coi verbi nascere. provenire, derivare, dipendere da ecc. e simili, o coi verbi prendere, ricevere, comprare, imparare, sapere, udire q. c. da ecc. aspettare, sperare, richiedere q. c. da ecc. giudicare, congetturare da ecc. risultare, apparire da ecc. Dalle quali cose nacquero diverse paure. Boccaccio. – Le parti presero nome dai Bianchi e Neri. Machiavelli. – Avea imparato il modo di far versi da que’ poeti. G. Gozzi. – Dai barbari non si dee far giudizio della natura degli uomini. Leopardi:

anche con verbi o con aggettivi che indicano passività, come soffrire, patire, morire, languire e simili; p. es. soffrire da un terremoto, morire dalla fame, dal freddo, languire dalla miseria, scoppiar dalle risa, stanco dalla passeggiata ecc.:

e coi verbi transitivi in costruzione passiva per indicare la cosa o persona agente. Il senno della donna da tutti era stato commendato. Boccaccio. (vedi P. I, cap. XXIII, § 15 e 16).

§ 18. Di segna parimente la causa con molti verbi intransitivi indicanti sensazioni; p. es. morir di farne, di freddo, di peste; infermare di un male, saper di muffa, puzzare di cipolla, risonare di gemiti ecc. stanco di soffrire o dal soffrire;

o con verbi pur intransitivi indicanti passioni dell’animo; godere, gioire, piangere, ridere, disperarsi, dolersi, affliggersi, pentirsi, maravigliarsi, vendicarsi di un’ingiuria, innamorarsi di qualche cosa; o con aggettivi di simile significato; contento, geloso, lieto di q. c. o persona. E se non piangi, di che pianger suoli? Dante. – (Gli uccelli) si rallegrano sempre delle verzure liete, delle vallette fertili, delle acque pure e lucenti, del paese bello. Leopardi. – La donna lieta del dono. Boccaccio. – Già mi vivea di mia sorte felice. Ariosto;

o con verbi indicanti un giudizio favorevole o sfavorevole, ringraziare, lodare, biasimare, premiare, accusare, condannare, calunniare ecc. alcuno di qualche cosa; o con aggettivi analoghi, reo, colpevole, innocente, chiaro, famoso, celebrato ecc.

Con tali verbi si può usare anche per; p. es. patire per freddo, godere, piangere, per qualche consolazione o disgrazia; accusare alcuno per furto ecc.

A serve a indicar la causa occasionale coi verbi conoscere, ravvisare, vedere ecc. Raffigurato alle fattezze conte. Dante. – Ti conosco e intendo All’andare, alla voce, al volto, ai panni. Petrarca.

Talora la causa si pone come oggetto apparente con alcuni verbi; p. es. piangere le sventure, patire il freddo, la fame, ecc. (vedi P. II, cap. I, § 15).

§ 19. Scopo e fine. Per significare lo scopo e il fine di un’azione, si usano le prep. per ed a.

Per si usa in senso locale, coi verbi andare, venire, mandare ecc.; p. es. andare per una cosa o per prendere una cosa, partire per un paese, mandar per alcuno o per qualche cosa. Arrigo di Lusemburgo venne in Italia, per andare per la corona a Roma. Machiavelli. – Molti di diverse parti del mondo a lui concorrevano per consiglio. Boccaccio. – In Antibo m’imbarcai per Genova. Alfieri;

in senso temporale: Non vi ha ella fatto invitare per questa sera? Firenzuola;

in altri sensi, p. es. studio per imparare, parlo per correzione, passeggio per divertimento ecc. Accade che un principe cavi fuora (fuori) danari per la guerra. Davanzati.

A segna pure lo scopo. Fatti non foste a viver come bruti Ma per seguir virtute (virtù) e conoscenza. Dante. – Iddio non a tuo danno, ma a tua salute t’ha data questa infermità. Cavalca. – Sempre a me d’Iddio tu parli .... Ad oltraggiarmi il nomi? A dargli gloria io ’l nomo. Alfieri. – Quindi si adopera dopo i verbi che significano aspirare, tendere, dedicarsi ecc. e col verbo condannare ecc. per indicare la pena: condannare alla carcere, all’esiglio, a morte.

Anche in segna lo scopo o la destinazione nelle frasi dare, offrire q. c. in dono, in premio ecc. parlare in lode, in difesa, in favore; chiamare qualcuno in ajuto; mettere q. c. in pegno, mandare un biglietto in risposta e molte altre somiglianti. Confronta quello che dicemmo di in, a, per col predicato nominale (Parte II, cap. I, § 16).

§ 20. Interesse. Al complemento di scopo è assai affine quello d’interesse, che consiste nella cosa e, più spesso, nella persona, a cui danno o vantaggio comecchessia torna l’azione, espressa dal verbo. In modo più determinato e particolare l’interesse si esprime colla prep. per; p. es. fare una cosa per alcuno, parlare per (cioè in favore di) ecc. tener per alcuno (cioè tener le parti di alcuno, favorire alcuno), temere, godere per alcuno ecc. Io farei per Corrado ogni cosa ch’io potessi. Boccaccio. – Non fa per te di star fra gente allegra. Petrarca.

Le particelle pronominali mi, ti, si ecc. unite coi verbi hanno spesso forza d’interesse e valgono per me, per te, per se. Disse Bruno: io ti spierò (spierò per te, a tuo pro) chi ella è. Boccaccio. Quindi servono a rafforzare il verbo, comunicandogli un senso d’intensità (vedi P. I, cap. XXIII, § 2 e 3).

A questo capo si riferiscono pure i modi simili si seguenti. Le parole che dice un povero figliuolo, te le inchiodano (quasi per te, in tuo danno) sulla carta. Manzoni. – Hanno appena immaginato un disegno, che il Conte Duca te l’ha già indovinato (davanti a te, perchè tu lo vegga). Manzoni. – È un pleonasmo che si pratica pure con le altre persone del verbo, e dei al discorso familiare molta vivacità.

§ 21. In modo più largo e indeterminato l’interesse si esprime colla prep. a (e colle medesime particelle prenominali [sc. pronominali Red.]) per indicare la persona, e più di rado la cosa, a cui si riferisce l’azione del verbo; e dicesi anche termine indiretto, appunto perchè l’azione termina in esso, benchè non direttamente come nell’oggetto.

Prendono il complemento d’interesse molti verbi intransitivi od impersonali che indicano una relazione indiretta ovvero una comunicazione con alcuno; p. es. giovare o nuocere, piacere, compiacere o resistere, servire o ribellarsi, parere o apparire, rassomigliare, corrispondere, mancare, parlare, perdonare ad alcuno; e molti altri di significata uguale o somigliante. Ciò dicasi altresì degli aggettivi o sostantivi analoghi, che serbano forza verbale, i quali pure si costruiscono con a; p. es. utile, dannoso; favorevole, contrario ecc. fedeltà, infedeltà, gratitudine, assistenza ecc.

Per fuggire equivoco o mal suono il compl. oggettivo (P. II, cap. II, § 14) si muta con quello d’interesse; p. es. l’amore a Dio e anche verso Dio; la cura a qualche cosa o per qualche cosa. Così pure amico ad alcuno si usa del pari che di alcuno.

§ 22. Anche molti verbi transitivi prendono, oltre l’oggetto, un complemento d’interesse che indica la persona, a cui la cosa significata dall’oggetto deve servire; p. es. dare una cosa ad alcuno; dire una parola ad alcuno; fare una cosa ad alcuno ecc.; scrivere una lettera, mandare un libro ad alcuno.

Sono degne di nota le frasi composte dai verbi avere, portare, usare, porre, mettere, perdere ecc. con un oggetto indicante un affetto dell’animo o un modo di trattare; le quali reggono un complemento d’interesse; p. es. portare amore, odio, invidia ad alcuno (Quanta invidia ti porto avara terra! Petrarca), usar de’ riguardi ad alcuno, perder l’amore ad o per alcuno ecc.

§ 23. Il complemento d’interesse con un verbo trans. o intrans. sostituisce il complemento possessivo, quando si vuole metter più in vista il possessore che la cosa posseduta; p. es. rompere una gamba, prender la mano ecc. ad alcuno (non di alcuno). I due fratelli gli stavano a’ fianchi (non stavano a’ suoi fianchi). Manzoni. – Chi lava il capo all’asino, perde il ranno e il sapone. Giusti. – (L’amor di patria) Empie a mille la bocca, a dieci il petto. Monti: e con nomi di parentela: padre, figlio, marito, cognato ad alcuno;

o sostituisce un complemento locale (con in), coi verbi vedere, sentire, trovare, scoprire ecc. Io mi sentiva (sentiva in me) una necessità assoluta di fortemente applicare la mente. Alfieri. – A chi rimaneva col capo rotto, Don Abbondio sapeva trovar qualche torto. Manzoni.

§ 24. Un certo numero di verbi intransitivi che, conforme al loro significato, reggono il complemento della persona interessata, possono cangiarlo in oggetto, divenendo transitivi. Per esempio, si usa più comunemente adulare, ajutare, soccorrere, sovvenire, compiacere, supplicare, insultare, avversare, benedire o maledire, somigliare, arieggiare, inchinare (per riverire), servire, supplire uno, che adulare ecc. ad alcuno, benchè anche questa seconda costruzione sia frequente. Al contrario si usa più comunemente obbedire ad uno, che uno.

Ciò si riscontra altresì in alcuni verbi composti, che sono divenuti transitivi; p. es. precorrere, precedere uno piuttostochè ad uno (vedi P. I, cap. XIV, § 5) contradire uno ecc.

Cosi pure un certo numero di verbi transitivi, che ad un oggetto di cosa sogliono unire il complemento della persona interessata, possono fare oggetto quest’ultima, e cambiare l’oggetto in un complemento con varie preposizioni. Per esempio, si usa comandare, dimandare, richiedere, persuadere, perdonare, consigliare, donare, defraudare e sim. una cosa ad alcuno, ma si usa pure comandare ecc. uno di od in q. c. Si usa invidiare q. c. ad uno, ma anche invidiare uno in qualche cosa o per qualche cosa o di q. cosa.

Altre volte il verbo, cambiando costruzione, cambia significato. P. es. aggradire una cosa vale averla cara; gradire ad alcuno, piacergli – assistere uno, soccorrerlo; assistere ad una cosa, trovarsi presente – attendere uno o una cosa, aspettare ecc.; attendere ad una cosa, prestarvi attenzione – credere ad alcuno, tener per vero ciò ch’egli dice; credere una cosa, tenerla per vera – provvedere q. cosa, procacciarla; provvedere a q. cosa, prendersene cura – sodisfare uno, pagarlo; ad uno, contentarlo ecc. ecc.

§ 25. Compagnia. Affine al complemento d’interesse è quello di compagnia, che si esprime per mezzo della prep. con. Quivi con molta famiglia, con cani e con uccelli, in conviti ed in festa .... cominciarono a vivere. Boccaccio. – Delibera d’andare a starsi alquanto con lei. Boccaccio.

Spesso si rafforza per mezzo dell’avverbio insieme: insieme con loro ecc. o con loro insieme (poco usato).

Il complemento di compagnia si usa anche in senso traslato, per indicare una congiunzione o comunicazione qualsiasi, amichevole od ostile. Quindi parlare, rallegrarsi o dolersi, incontrarsi, accompagnarsi, essere in collera, aver odio o rancore o amicizia. combattere, riconciliarsi ecc. con alcuno, – Frequenza, incontro, pratica, convivenza, contrasto, gara, lite, guerra ecc. con alcuno.

Coi verbi che indicano unione o mescolanza, il complemento di compagnia si alterna spesso a quello d’interesse, quasi senza varietà di significato; p. es. unire, congiungere, mischiare q. c. con od a; parlare, accompagnarsi con od a. – Mischiati sono a quel cattivo coro. Dante.

Dire o parlar fra se è oggi più usato che dire o parlar seco, frequente negli antichi. Confessarsi da alcuno ha senso religioso; confessarsi con alcuno è di senso più generale.

§ 26. Strumento e mezzo. La cosa che serve di strumento o mezzo a qualche azione, si costruisce più generalmente colla prep. con. Come d’asse si trae chiodo con chiodo. Petrarca. – Lucia asciugavasi gli occhi col grembiule. Manzoni. – Con questi ordini militari e civili fondarono i Fiorentini la loro libertà. Machiavelli. Così p. es. vedere con questi occhi, battere colle mani o coi piedi, prendere colle molle, uccidere colla spada ecc. ecc.

Spesso per proprietà di lingua alla prep. con (per lo più articolata) si sostituisce la prep. di (per lo più senza articolo) che forma col verbo tutta una frase; p. es. comprare di suo danaro, giuocare di bastone, entrare di un salto, rispondere di sua bocca; vedere di buon occhio; tirar di spada; salutare d’un cenno; uccidere di coltello. – Son notevoli le frasi col verbo dare; p. es. dar di mano a q. c., dar de’ remi in acqua, dar di petto in un muro, dar di piglio a q. c., dar d’occhio ad alcuno ecc. – Il giudice, siccome io vi dicea, Venne in questo palagio a dar di petto. Ariosto.

Altre volte vi si sostituisce la prep. a; p. es. chiudere a chiave, dire a bocca, andare a cavallo, a piedi, a vela, a remi; dipingere a olio; chiamare a nome; mostrare a dito; scrivere a penna; cacciare a calci, a pugni; giudicare a occhio; imparare, sapere a mente od a memoria, passare a nuoto o a guado; parlare ad alta o bassa voce; giuocare a carte, a scacchi ecc.; fare alle sassate ecc.; comprare o vendere a contanti, a peso, a caro prezzo ecc. (Cfr. qui sotto, § 28).

§ 27. A indicare più particolarmente il mezzo si usa la prep. per. Niuno si conduce a gloria stabile e vera se non per opere eccellenti e perfette. Leopardi.

Nel senso di strumento è oggi meno usato, ma era frequente negli antichi. Come i corpi si purificano per (con) certi medicamenti, cosi t’anima per le infermità. Cavalca. – Le guerre si soleano vincere per bene assalire .... ora è mutato modo, e vinconsi per istare bene fermi. D. Compagni.

Si costruisce con per anche quella parte di una cosa, con cui la cosa stessa vien presa. I monatti lo presero uno per i piedi e l’altro per le spalle. Manzoni. – Poi caramente mi prese per mano. Dante.

§ 28. Maniera e guisa. La maniera, il modo, la foggia che distingue e determina l’azione del verbo, involgendo per lo più il concetto ora di strumento, ora di compagnia, ora altri concetti avverbiali, si costruisce con varie preposizioni; e questi complementi equivalgono spesso ad un avverbio. (Vedi Gramm., P. II, cap. XXVIII, § 6):

concon arte, con ingegno, con piacere, con pazienza, con virtù, con ragione, con bel garbo, con mia somma soddisfazione ecc.; in luogo de’ quali può dirsi pazientemente, virtuosamente, garbatamente ecc.

Il contrario di con è senza: senz’arte, senza ingegno, senza piacere ecc. (spiacevolmente, sgarbatamente ecc.);

inin fretta, in bella maniera, in ogni caso. in ogni modo, in regola, in piè, in fila, in segreto, in perpetuo, in ultimo ecc. (frettolosamente, bellamente, regolarmente, segretamenteecc.). Alcune frasi avverbiali sono divenute voci composte, p. es. invano, indietro ecc.;

perper fretta, per forza, per violenza, per certo, per bel modo, per regola, per ultimo, per sempre, per ordinario (forzatamente, violentemente, certamente ecc.);

didi voglia, di forza, di ragione, di cuore, di buon cuore, di compagnia, di buon grado, di pianta, di passo, di trotto, di slancio, di volo, di certo, di segreto, di soppiatto, d’ordinario, di recente, d’improvviso, di nuovo, di bel nuovo (volentieri, ragionevolmente, cordialmente ecc.).

Sono modi francesi: andare o correre al trotto, al galoppo ecc.:

daNon le rispondo da medico (alla maniera di un medico, come fa il medico), ma bensì da suo amico. Redi. – Vorrei che tu da buona sorella (a guisa di ecc.) mi ajutassi. Leopardi. – È un servitore del vicario vestito da contadino. Manzoni. – Confronta quello che dicemmo del predicato (P. II, cap. I, § 16 in fine);

aad arte, a ragione, a torto, all’improvviso, a caso, a digiuno, a vicenda, a posta o a bella posta, a stento, a mala pena, a capello, correre a furia, a mio potere (ragionevolmente, improvvisamente, vicendevolmente, stentatamente, furiosamente ecc.). – Con ellissi della voce maniera o guisa: alla francese, all’italiana, alla buona, alla carlona ecc. alla lesta, all’impazzata ecc.

L’usare a con un sostantivo per indicare la maniera, la qualità è un gallicismo da fuggirsi; p. es. due ova al burro, cioccolata alla vainiglia, caffè alla panna, gelati alla pesca, bistecca alla gratella, dovendosi sostituire col o di o in secondo i casi. Così pure è mal detto parrucca alla Luigi XIV e simili.

Quanto ad altri complementi di maniera, che hanno valore attributivo, vedi P. II, cap. II, § 11.

§ 29. In senso distributivo la maniera si esprime con a e con un sostantivo plurale o coi numerali cardinali a centinaja, a migliaja, a monti, a gruppi, a branchi, a schiere, a minuti (contare a minuti) ecc. a due a due. Cadevan le saette a centinaja. Berni. – Erano uomini, donne, fanciulle a brigate, a coppie, soli. Manzoni. – Piove a bigoncie, a secchie;

o con due a, ripetendo il sostantivo in singolare a stilla a stilla, a grado a grado, ad oncia ad oncia, a passo a passo, a mano a mano ecc. (Vedi P. I, cap. XXV, § 34).

Altri complementi distributivi si fanno con per: due per due, cento per cento ecc.

§ 30. Materia. La cosa materiale, di cui si prende o si lascia una parte per qualsiasi uso, si costruisce colla prep. di (cfr. P. II, cap. II intorno al complemento partitivo). Adoprasi quindi coi verbi provvedere, fornire, munire, vestire, empire, caricare, abbondare e simili; e viceversa sfornire, spogliare, votare, scaricare, mancare e simili: così pure cogli aggettivi e coi sostantivi analoghi, che ritengono forza verbale pieno, vuoto, vestito, nudo, carico, scarico, abbondante, privo; pienezza, vacuità, abbondanza, scarsezza, carico, scaricamento ecc. – Già ricominciava la primavera, e la terra del bianco manto spogliata, di verde si rivestiva. Caro. – Pisa per la malignità dell’aria non fu d’abitatori ripiena. Machiavelli.

Vestire, spogliare e sim. possono anche costruirsi con un apparente oggetto di materia. Tanto che solo una camicia vesta. Dante. – Quivi gli altri vestir candide spoglie, Vestir dorato ammanto i due pastori. Tasso. – Questa costruzione si usa specialmente con vestire, quando significa esser vestito, andar vestito, in senso di azione compiuta. Vestivano panni lini. Cavalca.

§ 31. Può riferirsi al complemento di materia anche il subbietto, l’argomento, intorno al quale o sul quale si aggira un pensiero, un discorso, un desiderio, e sim. Si usa pertanto la prep. di coi verbi pensare, parlare, discorrere, trattare, informare, chiedere, dimandare, cercare (nel senso di domandare) di q. persona o cosa, pregare, supplicare, scongiurare ecc. alcuno di q. cosa, accorgersi, intendersi, conoscersi, beffarsi, impadronirsi di q. cosa, ricordarsi, scordarsi, far menzione, dimenticarsi ecc. di q. cosa, e cogli aggettivi o sostantivi analoghi discorso, parlatore, trattato, informazione, richiesta, dimanda, preghiera, ricordo ecc.; reo, innocente di q. cosa. Pensavano e parlavano delle scritture sante. Cavalca. – Di questo parleremo più distesamente, quando tratteremo della contrizione. Passavanti. – Giunto alla porta domanda dell’Abate. Sacchetti. – Cercate del nostro convento. Manzoni. – Tu vuoi ch’io ti faccia quello di che tu m’hai cotanto pregato. Boccaccio.

Molti di questi verbi si costruiscono anche con un oggetto; p. es. parlare nel senso di dire: parlare la verità (Che parlo? Petrarca), discorrere, trattare, dimandare (nel senso di voler sapere), chiedere una cosa (nel senso di voler sapere), pregare una cosa da alcuno. A V. S. prego da Dio ogni vera felicità. Redi. Ricordare, dimenticare e sim. (senza il pron. si) sono sempre transitivi: ricordare una cosa, scordare, dimenticare una cosa ecc. Pregare e sim. dinanzi all’infinito può prendere anche la prep. a (complemento di scopo o fine): la prego a scusarmi di quest’indugio. Caro.

§ 32. Limitazione. Il sostantivo cha limita o restringe ad una parte l’idea generale di un verbo o di un sostantivo o aggettivo analoghi, si costruisce ora con di, ora con in e talora con a; conoscere di persona, mutar di bandiera, cadere d’animo, vincere di cortesia, superare di bellezza, star bene o male di salute, star di casa, di bottega in un luogo, gareggiare di studio, cambiar di nome, crescere di staturabello, brutto, grande della persona; corto di vista, di memoria; infermo di corpo, di spirito; destro d’ingegno, snello del portamento, tenero di cuore, nobile di nascita, antico di sangue; pallido di colore, ottimo di costumi ecc. ecc.;

vincere in cortesia, superare in bellezza, star bene in salute, in gambe, in denari ecc.; gareggiare negli studii, valente in armi, dotto in un’arte, dottore in filosofia (o di ecc.), crescere in istatura, in senno, in dottrina, superare in autorità ecc.;

star bene o male a q. cosa (A Firenze il luglio e l’agosto si sta male a pesce. Redi); ben fornito a denari, misero a vestiti, scarso a libri ecc. bello a vedersi (P. I, cap. XX, § 14 verso la fine).

Con alcuni aggettivi il complemento di limitazione può anche farsi mediante un sostantivo senza preposizione, a maniera d’oggetto. Sul principio (Renzo) incontrava qualche viandante; ma pieno la fantasia di quelle brutte apprensioni, non ebbe cuore ecc. Manzoni. – Pien di filosofia la lingua e il petto. Petrarca. – Umida gli occhi e l’una e l’altra gota. Petrarca. – Dèe boscarecce Nude le braccia, e l’abito succinte. Tasso. – Ventisei capanne vestite il tetto d’una certa erba. G. Gozzi. Questa costruzione dicesi alla greca, ed è più propria del verso, che della prosa.

§ 33. Al complemento di limitazione appartengono anche quei sostantivi che determinano l’estensione nello spazio, nel tempo o nel numero, e si costruiscono senza preposizione, a maniera di oggetti apparenti (vedi P. II, cap. I, § 15); p. es. alto tre palmi, lungo dieci braccia, vivere cinquant’anni. Tutte le torri di Firenze .... alte 120 braccia l’una. G. Villani. – Stende la lingua che è lunga quasi tre palmi. Serdonati. – Il sonno di Epimenide durò un mezzo secolo e più. Leopardi. – Ventitrè o ventiquattro giorni stettero i nostri fuggitivi al castello. Manzoni. – Perpetua entrava in un orticello pochi passi distante dalla casa. Manzoni. – Della Toscana erano la maggior parte signori i Fiorentini. Machiavelli. – Un gruppetto di case abitate la più parte da pescatori. Manzoni.

§ 34. Distribuzione. Il sostantivo indicante le cose o persone, fra le quali un’altra cosa si distribuisce, si pone in singolare colle prep. per, a, e spesso col semplice articolo determinato, senza alcuna preposizione.

Per (senza articolo) è la preposizione d’uso più generale; p. es. dare un pane per ciascuno, per uno, per uomo, per testa; il tre per cento, leggere un canto per giorno, uscir di casa tre volte per sera ecc. Con ripetizione: Stavano tre per tre, cento per cento, giorno per giorno ecc.

A forma de’ modi avverbiali di maniera e guisa (vedi qui addietro, § 29). Inoltre si usa coi nomi di prezzo: due panini al soldo ecc.; tre a una lira. Si usa il nome senza preposizione e coll’artic. determ. quando si tratta di tempo o di misura, p. es. una volta il mese, il giorno; riscuotere mille lire l’anno (non si dice bene all’anno, al mese, al giorno), confessarsi una volta la settimana; mangiare ogni ora; due lire il braccio, tre lire il metro.

§ 35. Sostituzione. La cosa o persona, colla quale se ne permuta un’altra, si determina mediante la prep. per. Mostrano loro lucciole per lanterne. G. Gozzi. – Dolce mi fia Renderti ben per male. Alfieri.

Coi verbi di comprare, vendere e sim.: per un soldo, per due lire ecc. Spesso e più comunemente con a: comprare a un soldo, vendere a dieci lire, a caro prezzo ecc. o a guisa d’oggetto: vendere una cosa due soldi.

Spesso la sostituzione prende il senso affine di rappresentanza, somiglianza, ufficio, nel senso di come. P. es. seppellire uno per morto (cioè, come se fosse morto), partirsi per disperato (come disperato), avere qualche cosa per indubitato, prendere alcuna o alcuno per moglie o per marito (come moglie ecc.), eleggere alcuno per imperatore. (Vedi P. II, cap. I, § 16). – Nei quali casi il complemento diviene predicato nominale (vedi loc. cit.).

§ 36. Comparazione. Dopo più, meno, meglio, peggio, maggiore, minore, migliore, peggiore ecc. il termine di confronto si costruisce ora con di ora con che.

Si usa oggi più comunemente di (ma talora anche che) quando il confronto cade sopra una qualità (aggettivo) o un modo di essere (avverbio) comune, benchè in grado diverso, a due o più cose; p. es. Roma è più grande di Firenze. Pietro legge più presto di suo fratello. Quindi si dice migliore, maggiore ecc. di alcuno e non migliore che ecc.

Si usa anche di innanzi ai nomi di numero: più di mille, meno di cento. Più di due miglia lontano era la villa d’un ricchissimo gentiluomo. Caro.

Si usa più regolarmente che (ma spesso anche di) quando il confronto cade sopra un’azione (verbo) dalla quale le due o più cose dipendono come soggetti od oggetti, p. es. mi piace più la carne che il pesce; amo più te che lui (anche del pesce, di lui).

§ 37. Si adopera sempre che nei seguenti casi:

quando il termine di confronto è retto da una preposizione. Pensoso più d’altrui che di sè stesso. Petrarca;

quando è un sostantivo comune preso in senso indeterminato e usato senza articolo. D’intenerire il corsi dava il vanto Se stato fosse più duro che pietra. (Ovvero d’una pietra). Ariosto. – I dì miei più correnti che saetta Sonsene (se ne sono) andati. Petrarca. – Non più bevve del fiume acqua che sangue. Petrarca;

quando il confronto è fra due aggettivi o predicati, e avverbii. Andreuccio più cupido che consigliato. Boccaccio. – Mi è più amico che padre. Dimorai più qui che altrove. Meglio tardi che mai.

Però cogli avverbii determinati di tempo, oggi, jeri, ora, allora si usa anche di; p. es. Stavo meglio allora di ora; Piove oggi più di jeri.

In generale si preferisce che quando di potrebbe sembrare un complemento d’altro genere. Era necessario che l’Italia si riducesse più schiava che gli Ebrei. Machiavelli. – Se avesse detto Più schiava degli Ebrei poteva intendersi che l’Italia fosse tenuta schiava dagli Ebrei. In verso ed anche nel parlare nobile ed elegante si usa più spesso che. Una donna più bella assai che ’l sole. Petrarca. – Pareami ch’ella fosse più che la neve bianca. Boccaccio.

§ 38. Dopo gli avverbii prima, piuttosto, anzi e sim. in senso di preferenza si usa regolarmente che. Sceglierei prima la morte che cotesta vergogna. – Ti parrebbe piuttosto un’isola che una città. Caro.

Non si confonda il complemento di comparativo, col complemento di che serve al superlativo e che rientra nei complementi di tutto e parte (vedi capitolo prec. § 16), il quale può anche sostituirai colla prep. fra. Bellissimo fra tutti, ovvero di tutti bellissimo; il più bello di tutti, ovvero il più bello fra tutti (vedi Gr., P. II cap. VIII, § 4).

§ 39. Duplicazione dei complementi. Spesso, massimamente nel parlar familiare o per ragioni di chiarezza e di forza, i complementi locali in senso proprio o figurato e i complem. d’interesse e di compagnia si anticipano o si ripetono, mediante le particelle avverbiali ci, vi, ne o le pronominali gli, le, p. es. qui ci sono io, costà ci andrai tu, non ci entrerò in cotesta casa; ne voglio uscire di questo, impiccio; dal troppo bene fu per morirne; di questa cosa ne sono stanco, ne sono libero, non ne discorro più; con Francesco ci parlerò io; a Giulio gli darò io la ricompensa ecc. – Nè vi potrei dire quanta sia la cera che vi si arde a queste cene. Boccaccio. Se il complemento consiste in un pronome relativo, sia usato come oggetto, sia con preposizione, si suole duplicare più di rado; onde non si direbbe bene al quale gli diedi un pane, nè uno che non l’avea mai veduto, o di cui ne parlai, salvo il caso, che fra l’un termine e l’altro fossero interposte più parole, e la chiarezza del senso e la naturalezza consigliassero la duplicazione. P. es. E vidi cosa ch’io avrei paura senza più pruova di contarla solo. Dante. – Cfr. la P. I, cap. XII, § 14, nota, e vedi al suo luogo la P. III [cap. II §7 Red.].

Quanto alla duplicazione della ne partitiva, vedi cap. precedente in fine.


Torna su ^