XIII. SERMO | |
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Maeret homo de nocte sedens. Casa mane ruinam parva dedit, paulo ante domus, vetus inde sepulcrum, quippe ubi defossi iaceant mater, pater, uxor. Quale sonat, perfracta rotis ubi glarea plaustri exanimem subito per somnum exterruit aegrum, |
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tali cum strepitu tremor impulit oppida deinceps. Momento fuit orbus homo: nunc suspicit astra. At sapiens oblatus adest per caerula noctis. «Heus viden,» inquit «homo, quantam modo feceris una tu cladem caliga?» Caligae, velut immemor, ille |
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formicas visit truncis haerescere membris, nam pede diruerat formicis forte domos et colliculos aequarat arenosos. «Age porro rursus» ait «licet ad caelum convertere visus». Tum stellas volitare videt, videt undique caelum |
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scintillare, velut cum grandi in funere lictor invertit taedam, fungos ut deterat atros. Hic sapiens: «Necopinata nece tota vicissim sub pedibus tibi gens, supra caput interit astrum. Hem quid ais? Nec agi censes male nec bene tecum |
515 |
siquod dissiliens astrum sublime fatiscat, siqua teratur humi pedibus formica, nec autem vivat homo refert cuiusquam necne, quod unum quodque suus dolor est genus, atraeque omnia mortis, mortis erunt quandoque supervolitantis in umbra». |
520 |
Sic est: perfugium fraterno in corde doloris unum est: ipse tibi cur intercludis? et illi adfers, qui valeat tibi mox lenire, dolorem? Quidve ita nomen adhuc humanum dissidet armis? Non aliter pueros media inter proelia mater |
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opprimit et pugnos et strictos occupat ungues: unus ubi geminos cubitum discedere iussos lectulus excepit flentesque iraque tumentes, iam vacuae circum tenebrae terroribus implent: iam non singultant, lacrimis moderantur et irae, |
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mox sensim placidis pugnacia bracchia circum dant collis et corda premunt oblita furoris. |
L’uomo siede da tutta la notte, e piange: il piccolo abituro la mattina era crollato: poco prima era una casa, da gran tempo è un sepolcro, ché vi giacciono sotterrati la madre, il padre, la moglie. Qual suono fa la ghiaia triturata dalle ruote d’un carro (suono che a un tratto atterrisce e leva il respiro al malato che dormiva), con tale mugghio un tremore sospinse l’una dopo l’altra le città. In un attimo l’Uomo si trovò senza nessuno de’ suoi cari; ora alza gli occhi alle stelle.
Ecco, gli è avanti il sapiente: egli lo vede al chiarore ceruleo della notte. Dice: «Vedi, o Uomo, che strage hai fatta or ora con uno de’ tuoi calzari?» Come trasognato, quello guarda e vede che alle scarpe sono attaccate formiche con le membra smozzicate: ché col piede aveva abbattuta una casa alle formiche e aveva spianato i loro collicelli di sabbia. «Or via,» esclama il sapiente «or puoi di nuovo volgere gli occhi al cielo!» Allora egli vede stelle sfilare, vede d’ogni parte scintillare il cielo, come quando, in un solenne funerale, gli accompagnatori capovolgono le fiaccole per levarne la nera moccolaia. E il sapiente: «Di morte improvvisa, a lor volta, sotto i piedi ti muore un popolo, sopra la terra ti muore un astro. Che dici tu? tu dici che a te non fa nulla, se in alto un astro schizza e va in polvere, se in terra una formica è calpestata. Ebbene a nessuno importa se l’Uomo viva o non viva, ché ogni genere è morso da un suo proprio dolore, e tutti gli esseri, presto o tardi, si troveranno all’ombra delle ali della morte: della morte che vola sul nostro capo.
«Cosí è: vi è un solo rifugio per il nostro dolore: il cuore dei fratelli. E tu perché te lo impedisci da te? Perché rechi dolore a quello che di lí a poco potrebbe consolare il tuo? Perché la grande Nazione Umana è ancora in preda alla discordia e combatte tra sé? Non altrimenti la mamma sorprende i bimbi in mezzo a una rissa, e affrena i loro pugni, le loro unghie pronte all’offesa. Quando un letto solo ha accolto i due bimbi, mandati a nanna, i due bambini che ancora piangono gonfi d’ira, ecco le tenebre attorno, sebbene vuote li empiono di paura, ecco, non singhiozzano piú, frenano le lagrime e l’ira; di lí a poco si circondano pacificati il collo con le braccia pugnaci e accostano l’uno all’altro il cuore dimentichi della furia».
Trad. Giovanni Pascoli
v. 518. est da edo.