Martedì 3 novembre 1998    scrivimi@mauriziopistone.it    strenua nos exercet inertia    Hor.

FANTASIA

1630

Fantasia, Imaginazione, Imaginativa.
Imagine, Fantasma.

Imaginazione è facoltà indivisibile dalla memoria e dalla percezione degli oggetti corporei.
In quanto gli spirituali si rappresentano o vestiti d’imagine o confusi a imagini, o risvegliano per similitudine un’imagine qualsiasi, anch’essi esercitano l’imaginazione. La quale è perciò facoltà necessaria al matematico altresì; e il metafisico può regolarla e altamente giovarsene, abolirla non può. Ogni imagine d’oggetto sensibile dicevano nelle scuole fantasma; ma forse potrebbesi in quella vece usare imagine sempre quando trattisi di rappresentazione conforme a verità, e che non turbi il sereno della intelligenza. Fantasmi direi quelli che si frappongono tra la mente e l’idea.
A ritenere le impressioni provate richieggonsi imagini; e la memoria stessa di quel che provarono i sensi del tatto e dell’udito e dell’odorato e del gusto esercita a qualche modo l’imaginazione, poiché vi si congiunge l’impressione d’una forma misurata o coll’occhio o col tatto. Nei non veggenti, dal tatto viene l’imagine; ai veggenti stessi il tatto è guida e quasi luce dell’occhio per farsi rette imagini delle cose. Ma queste e tutte le altre imagini la fantasia le compone, le divide, le avviva col comporle appunto e col dividerle, cioè presentandole a sé in forma tale che più chiamino l’attenzione e più eccitino l’affetto. Nella fantasia è una specie d’astrazione; l’astrazione è una specie di fantasia. Differisce essa dunque dall’imaginazione e nella maggiore vivezza e nella potenza e fecondità. L’imaginazione è elettrico equabilmente distribuito, naturale e necessario elemento del mondo corporeo. La fantasia, elettrico condensato, che negli strumenti atti a rinchiuderlo e a sprigionarlo produce quelle composizioni e scomposizioni mirabili, rovinose o benefiche, che sappiamo.
Imaginativa è più propriamente la facoltà; l’imaginazione è la facoltà, e l’idolo dall’imaginativa creato o veduto. Le imaginazioni, non le imaginative, diciamo [Ma piuttosto che imaginazioni, nel plurale dicesi fantasie]. – Scalvini.

1631

Fantasia, Estro, Ispirazione, Vena.
Imaginoso, Estroso.

Fantasia è l’apparizione subita e spontanea d’un pensiero accompagnato da un più o men vivo sentimento; chi più ne ha di queste apparizioni dicesi uomo di fantasia. Il capriccio ha sempre qualcosa di meno conveniente; la fantasia può essere bella.
L’estro, più impensato e più fugace del capriccio, nel senso che l’uso sa essere le due voci più affini, sembra anche più innocuo. Io vo’ scemare importanza a un mio fatto o parola, quando dico: gli è un estro che m’è venuto. – Capponi.
Il senso originario d’estro, fa sentire il ronzio e il pungiglione dell’assillo e del tafano: e in verità certi estri e certi uomini estrosi rammentano troppo il tafano.
Ispirazione ha sempre significato più alto, e dalla religione cristiana più e più sublimato. L’estro poetico, l’estro febeo, son diventate maniere comuni di proverbiale ironia. Ma anche nel senso migliore, l’estro è la disposizione felice dell’ingegno a concepire e eseguire opere d’arti. La facilità dell’eseguirla segnatamente nell’arte della parola e in quella de’ suoni, dicesi vena. Può esserci vena senz’estro, ne’ mediocri; estro senza vena negli inesercitati o diffidenti di sé. L’estro non è continuo; continua può essere l’ispirazione chi sappia meritarla con l’abito di pensieri e affetti degni, con l’umiltà e la preghiera.
Estroso, che va a estri. Imaginoso ha senso sempre buono; concerne la qualità dell’ingegno e le opere d’arte. Imaginoso scrittore, concetto, componimento. Estroso al contrario, suona sempre biasimo, e non concerne le qualità e le opere della mente, ma i moti dell’animo, e gli atti che vengono dall’impulso di quello. Uomo estroso, dice più di uomo che va a estri: il secondo denota inuguaglianza d’umore, e subite risoluzioni e scatti, non in male soltanto, anco in bene. L’estroso ha impeti d’impazienza, capricci provocatori, stranezze che paiono quasi mattie. Estroso, anche un bambino che non sa vincersi né rattenersi.

1632

Fantasia, Capriccio, Grillo, Ghiribizzo.
Ghiribizzo, Ghiribizzamento.
Capriccio, Bizzarria, Stranezza.
Imbizzarrire, Infuriare, Impennarsi.

Grilli, i capriccetti di poca importanza, e differiscono da’ ghiribizzi nei seguenti rispetti: 1. Diciamo: saltare e venire il grillo, più comunemente che: saltare, venire il ghiribizzo [Berni: «Gli salta il grillo, e di schiera si leva»; «Gli venne il grillo di partire»]; 2. Capo pieno di grilli, e simile; meglio che: di ghiribizzi [Morgante: «Tu ha’ ’1 capo pien di grilli, E fosti sempre pazzo». Varchi: «Cava grilli del capo altrui»] 3. Grillo non si dice, come l’altro, d’operazione della mente e dell’arte; non è che una volontà, per lo più, spontanea, sempre vivace, e più o men capricciosa.
Bizzarria è singolarità, più o meno, inconveniente tra il vivace e l’impetuoso; stranezza, singolarità parte naturale e parte affettata, che si scosta e vuole scostarsi dal comune uso; capriccio è singolarità più piacevole, d’ordinario; che ha del leggero, dell’inetto, del lascivo, talvolta del feroce; ma rado. – Romani.
La bizzarria può essere e abito e atto; il capriccio è, per solito, un atto. Tanto diciamo: raccontare una bizzarria, quanto: la bizzarria di quell’uomo. Son più singolari talvolta le bizzarrie di chi non ha la bizzarria per carattere: questi è monotono per lo meno, quando non sia studiosamente affettato [Osservisi però, che l’epiteto capriccioso, del par che bizzarro, denota l’abito].
La bizzarria è singolarità più o meno inconveniente, più o meno verace e franca; il capriccio, singolarità un po’ più versatile. La bizzarria si manifesta specialmente nelle idee, nelle maniere e negli atti; il capriccio, nelle risoluzioni e nelle azioni. L’uomo bizzarro è straordinariamente vivo; l’uomo capriccioso, straordinariamente vario.
Il capriccio dispiace meno nelle donne che negli uomini, sebbene in esse abbia talvolta sequele più gravi; la bizzarria nelle donne è più ridicola che negli uomini, sebbene parrebbe più lecita a quelle. Questa differenza ha la sua ragione, ma troppo lungo sarebbe spiegarla.
Bizzarria può, per estensione, dirsi anco delle cose del mondo corporeo [Redi. «Lumaconi terrestri che bizzarramente s’uniscono al collo in una maniera tutta differente dall’altre bestie»]; non la fantasia né il capriccio. Il Monti disse: «Le prime di natura Vergini fantasie, che in piante, in fiori Scherzano senza legge, e son più belle». Ma nel linguaggio comune suonerebbe affettato. E capricciose potrebbersi dire certe singolarità di natura, ma questi son modi come di eccezione, che non aboliscono l’intima proprietà del vocabolo.
La bizzarria, più che le altre due, può congiungersi allo sdegno, anche all’ira, purché non furente [Pulci: «Rinaldo gli montò la bizzarria, E dettegli nel capo». In antico bizzarro valeva iracondo. Quindi del cavallo, imbizzarrire, ch’è meno d’infuriare, e non è l’impennarsi, perché questo e altri simili moti, e’ può farli senza imbizzarrire, o può imbizzarrire o correndo alla dirotta, o andando di traverso, e non s’impennare].
La bizzarria e il capriccio possono essere due qualità o atti della fantasia. Può questa essere più o men capricciosa, bizzarra. E specialmente questo secondo aggiunto sta bene con la detta voce. Davanzati: «Fare di quelle cose fantastiche per bizzaria dell’arte»; «Bizzarre fantasie» [Bizzarrie si chiamano certi fiori o frutti (specialmente gli agrumi) i quali pigliano forme e colori strani, o proprii di piante diverse. Il Redi, descrive «Una bizzarria esternamente fatta a striscie o a fette, alternative irregolarmente, di cedrato e d’arancia»; la quale conteneva un’arancia schietta, e l’arancia conteneva un cedratino. – Lambruschini]. «Il capriccio, nota il d’Alembert, viene sovente dall’indole o dagli abiti dell’uomo; la fantasia (in quanto non facoltà ma atto di pensiero e di volere), da un sentimento momentaneo, passeggero. L’uomo per natura strano, se fa una stranezza, la chiameremo un capriccio; l’uomo per natura assennato, se gli vien detto o pensato qualcosa di singolare, la non sarà che una fantasia».
Questo secondo ha sempre senso più buono. Le fantasie del pittore paiono meno strane dei capricci, possono essere più ardite o più originali.
Fare spesa non necessaria, è fantasia se ha per impulso una voglia smaniosa d’essere soddisfatto; è più propriamente capriccio, se viene da inclinazione viziosa.
Diremo: le fantasie di un amante; i capricci d’una civetta.
Dicono volgarmente: i capricci della sorte, del caso; che certo non son fantasie. I capricci, innoltre, possono aggirarsi sopra cose più frivole; un atto solo, un cenno può talvolta sfogare il capriccio [Davanzati: «Per capriccio si inarpicò sopra un arbore»].
Fantasia, insomma, è parola più nobile. E però il Varchi: «Come degli uomini o ingegnosi o buoni solemo dire che hanno belli concetti o buoni o alti o grandi, cioè bei pensieri, ingegnose fantasie, diverse invenzioni ovvero trovati; e più volgarmente capricci, ghiribizzi, e altri cotali nomi bassi».
Non è già che capriccio sia voce bassa e sempre di senso non buono; e il Davanzati l’adopra insieme con fantasia molto bene: «Veggiamo in ogni professione e arte, fuori de’ precetti ordinari, spesse volte di nuovi capricci e di bizzarre fantasie».
Ghiribizzo e grillo sono più famigliari. Il ghiribizzo è capriccio ch’ha dello strano più che del malizioso [Berni: «A Mandricardo il ghiribizzo tocca D’udir se la campana avea buon suono»]. Un originale ha i suoi ghiribizzi, una donna volubile ha i suoi capricci: i primi potranno, al più, muovere a impazienza; i secondi generano effetti più serii.
Ghiribizzo un concetto poetico che abbia del singolare; e in questo senso è affine non a capriccio ma a fantasia; se non che la fantasia è cosa men piccola, almeno di mole. L’epigramma può essere un ghiribizzo; c’è molti sonetti che altro nome non meritano [Salvini: «Stampare ogni ghiribizzamento, ogni piccola insulsa leggenda». Questo ghiribizzamento, che altrove sarebbe affettato e che usitato non è, qui cade bene e aggiunge al biasimo; e in casi simili tornerebbe opportuno. Certi ghiribizzi stentati e protratti di certi letterati e anco di certi scienziati, sono ghiribizzamenti]. In certe poesie tedesche abbondano le fantasie stravaganti, se così piace, ma almeno feconde d’un qualche pensiero: i ghiribizzi di certi Francesi sono misera cosa.
Nel ghiribizzo può talvolta essere più studio, artifizio, stento; perché il ghiribizzo è da ingegni piccoli, e gli ingegni piccoli nell’affettazione si compiacciono. Fantasia sveglia l’idea di cosa meno mendicata [Varchi: «Ghiribizzare, fantasticare si dicono coloro i quali si stillano il cervello pensando a ghiribizzi, a fantasticherie... cioè... a trovati strani e straordinarii»; «Certi ghiribizzatori sono tenuti uomini per lo più sofistici». Ghiribizzare, co’ suoi derivati, non è comune nella lingua parlata].
Ghiribizzo direbbesi anche un piccolo fregio di pittura, o d’altra arte [Davanzati: «Lettere stranamente variate per ghiribizzoso tratteggiare»]; il capriccio riguarda non un tratto di penna o di pennello o d’altro, ma un concetto, un’idea.
Le due voci suddette vengono dall’Allegri raccolte in un solo membretto: «Le nove sorelle, madri e ghiribizzose nutrici di bizzarri capricci».

1633

Fantasiaccia, Bizzaccia, Estraccio, Ideaccia, Capricciaccio.
Fantasiuccia, Estrino, Capriccietto, Capricciuccio.

Fantasiaccia è la facoltà sregolata per abito, per vizio, per affettazione; o è una concezione bislacca o deforme e moralmente inconveniente in fatto d’arte; e anco un pensiero, una deliberazione, nel colloquio e nella vita, che tenga non dello strano soltanto, ma dello sconcio e del biasimevole. Bizzaccia non riguarda che i moti d’impazienza e di sdegno, sfogati in atti o anco in parole [Da bizza si fa imbizzito e imbizzire, non attivo ma neutro assoluto; e non pare usitato neanco imbizzirsi]. Così il capricciaccio riguarda più spesso cose morali e sociali, non atti meri della fantasia o della mente. Anco ideaccia, così peggiorativo, dicesi piuttosto di cose da fare, che di pensamenti da scrivere o da nutrire dentro di sé. Estraccio può avere due sensi: estro matto, spesso affettato, di certi che altro segno non hanno da parere poeti o artisti; e anco, nel muoversi e nel fare e nel dire, émpito disordinato, uscita stravagante.
Estrino, al contrario, è motto che tiene del grazioso, né si direbbe di scrittore o d’artista.
Capriccietto ha quasi sempre mal senso, come capricciuccio l’ha meschino: capricciuccio di letterato piccoso, capriccietti di donna galante. Fantasiuccia è facoltà gretta, e anco concezione meschina, o sfogo di fantasia in cose da dirsi o da farsi, dappoco e per sé e per il fine.

1634

Fantasia, Fantasticheria.

Siccome fantasticare è un abusare della fantasia in pensieri vani o troppo sottili, così fantasticheria, l’atto del fantasticare, ha senso non di lode; è un esercizio della fantasia, e anche dell’intelletto, in operazioni che nulla o poco hanno di solido o d’utile.
Fantasticheria dice ancora la tendenza, l’abito, il vizio; dove fantasia o è la facoltà della mente o è un atto della facoltà. La religione non conviene difenderla a forza di fantasticherie; troppo ell’è venerabile, troppo è salda, e degli umani sostegni punto non abbisogna.
La fantasticheria spesse volte è contraria ai liberi voli della fantasia. L’una è dei critici pedanti, l’altra degli intelletti creatori. Ma ne’ tempi nostri è da notarsi come certi critici abbondino di fantasia, di fantasticheria certi autori.

1635

Fantasticheria, Fantasticaggine.

Se anco fantasticheria dice un abito non bello e non buono, fantasticaggine lo denota con più senso di biasimo. Poi, questo concerne le cose della vita, e s’approssima a sofisticheria, ma con più smania e più uggia del fantasticante che d’altri. Fantasticaggine può altresì essere l’atto. Certe fantasticaggini tra marito e moglie paiono a taluni più oltraggiose di certe infedeltà.

1636

Fantastico, Stravagante, Pazzo, Sofistico
Alla impazzata, Alla pazzesca, A caso, A casaccio, Alla ventura, A fanfera, Al bacchio.

Il secondo è sovente l’effetto del primo. Ma può l’uomo essere in certe cose fantastico, no stravagante; e può essere sì goffamente stravagante da non meritare nemmeno il titolo di fantastico.
Fantastico, strano per movimenti di fantasia soprabbondante; può avere buon senso. Sofistico, uggioso per arguzia abusata d’ingegno, la quale tenda a avviluppare, o aggravare altrui: uomo, domanda, obbiezione sofistica. Stravagante, che va fuori dello stabilito nell’uso, di quel che pare secondo le regole; ne va fuori in modo più o men capriccioso, e sovente non lodevole. Concetto, proposito, uomo, discorso, maniere stravaganti. Fantastico concerne l’imaginazione; sofistico, il ragionamento; stravagante, ogni cosa.
La pazzia, in senso più mite, come suole intendersi nell’uso del mondo, è prossima a stravaganza. Il pazzo fa delle stravaganze vere, e chi pensa stravagante, ha una vena di pazzo. Ma si può essere pazzo, e non fare stravaganze, e non ne dire se non sopra certi argomenti; si può essere stravagante, e non fare né dire pazzie. Chi maltratta la gente fuor di ragione, chi troppo pretende, e nulla vuole che gli altri richieggan da lui, chi s’adira d’ogni cosa, è uno stravagante che non si sa da che banda pigliarlo. Colui che non bada, non isfonda, che si lascia andare a bizzarrie da muovere riso e da sorprendere (le quali però, conosciuto l’uomo, non offendono), è un pazzo. L’uomo stravagante v’offenderà persin col silenzio; il pazzo, più parla, e meno v’irrita.
Alla pazzesca, da uomo quasi pazzo; all’impazzata, senz’ordine alcuno, come se a quella operazione non presedesse ragione o ragionevolezza. Chi opera alla pazzesca, ha, in quel momento almeno, non intero il suo senno: chi opera all’impazzata, non ha il tempo di pensare, di raccogliersi per operar bene. Diciamo: correre all’impazzata, e non: correre alla pazzesca. Chi scrive all’impazzata, non pensa a quello che dice: chi scrive alla pazzesca, pensa per dire stranezze. I mediocri, quando non hanno gusto, scrivono alla pazzesca, stentato e bizzarro; gl’ingegnosi senza gusto, scrivono alla pazzesca insieme e all’impazzata, presto e male, torbido e annacquato, spensieratamente e sragionevolmente.
A ognuno vien detto o fatto qualcosa a caso; gli spensierati dicono o fanno a casaccio; l’uomo a caso è un poco astratto, non riflette gran cosa; l’uomo a casaccio è uno scapato, un arfasatto, che nulla fa a garbo.
Si fa, si dice a caso; alla ventura si opera piuttosto, o si parlano cose che sono da contar come fatti. Si può operare alla ventura senza operare a caso; quando cioè o di necessità o di proposito si lasci almeno in parte alla ventura l’esito del proprio operato. C’è chi va alla ventura a cercare in altro paese sorti migliori. E non lo fa a caso; riguarda prima qual paese gli potrà meglio convenire; ma qualunque e’ prescelga, vede già di doversi mettere alla ventura.
A fanfera [La Crusca nota a bambera, a vanvera, a fanfera; quest’ultimo è più comune nella lingua parlata. Ma la radice pare qualcosa di simile a vano] è meno che a caso; vale: senza la debita meditazione e cautela. Chi fa a caso non prevede né provvede; chi a fanfera, non può talvolta provvedere anche quel tanto che vorrebbe [Davanzati: «Corrono a combattere alla impazzata, tirando a vanvera nel buio». Allegri: «Non usavano i vecchi nostri far le cose a vanvera». Franzesi: «In queste rime, a vanvera dettate»]. Uomo a caso, diciamo, facendone come un aggettivo; non, uomo a fanfera.
Al bacchio, anch’esso dello stil famigliare, e denota non solo spensieratezza, ma avventataggine: però si reca per solito alle azioni piuttosto che alle parole; è più forte di a caso e di a casaccio, perché, ripetiamolo, queste due non indicano che due gradi di spensieratezza; e differisce particolarmente da a casaccio, in quanto che s’applica piuttosto a’ fatti [C’è qualche esempio di questo modo applicato a discorsi, ma non pare dell’uso. Viene forse dal dare col bacchio sui rami, che il frutto ne caschi; il che di rado si fa senza danno delle frutte e dell’albero]. Pare quindi un po’ più forte di a fanfera, e molto più forte di alla ventura, giacché questa, come abbiam detto, può non escludere qualche considerazione.

1637

Umore, Fisima.
Umoroso, Umorista.
Essere di bell’umore, Fare il bell’umore.
Il bell’umore, Un bell’umore.
Bell’umore, Buon umore.
In umore, D’umore..

– L’umore è gaio, tristo, buono, cattivo; gli è vario insomma. Onde il motto comune: varii sono gli umori, varii i cervelli.
Fisima [Cron. Morelli; Allegri], è capriccio strano, fantastico con meschinità. D’uomo stravagante dimolto, dicono: gli ha certe fisime da fare scappar la pazienza a chicchessia. – Meini.
Umoroso, che ha di molti umori, nel senso proprio. I grassi sono umorosi. Umorista, il medico che s’attiene alla teoria dell’umorismo; teoria che oggi ha pochi seguaci; ed è persona volubile, che ha diversi umori; ma più per ischerzo che altro, e non è modo gentile. – Meini.
L’humour degl’Inglesi è proprio loro, e in loro originale, e mal s’imita dagl’Italiani che il bell’umore, e il buon umore e il malumore non sanno insieme contemperare. I nostri scrittori umoristi e il nostro umorismo, sono contraffazioni meschine: l’humour sottentrato all’esprit ci dimostra sempre schiavi. E la Bibbia protestante è sottentrata al Voltaire, per fare, in servizio del Voltaire, dispetto alla Bibbia.
L’uomo che è di bell’umore, ha uno spirito sereno, aperto, che guarda le cose dal lato piacevole, un po’ dal lato ridevole, se non dal ridicolo; ama celiare, fugge quanto è malinconico, o troppo serio. Uomo tale, assolutamente, dicesi bell’umore [Buonarroti: «Questo... Epigramma Fu fatto notte tempo Da qualche bell’umor celatamente»].
Chi fa il bell’umore, lo fa spesso in modo da provocare altrui [Lippi: «Sarebb’ito un po’ a rilente Nel far con Calagrillo il bell’umore»]; non è tanto un umore allegro quel suo, quanto bizzarro, fantastico, non rispetta i riguardi dovuti altrui; si piglia un po’ gioco non solo in modo giocoso, ma più gravemente. Perché siccome il sublime confina col ridicolo, così il ridicolo passa presto a diventare ben serio.
Altro è, dunque, fare il bell’umore, altro essere un bell’umore. Fare vuole l’il; essere, l’un; né si direbbe: fare un bell’umore, essere il bell’umore. Queste piccole variazioni mutano il senso, o lo tolgono affatto [A modo però d’esclamazione direbbesi: voi siete pure il bell’umore! Gli è il gran bell’umore! Ma diventa altra locuzione].
L’uomo più tetro può a qualche momento sentirsi di buon umore. E il buon umore e il cattivo si darebbero a conoscere più sovente se gli uomini fossero più sinceri; ma il più degli uomini mostra il cattivo quando ha il buono, e a vicenda.
Chi è di bell’umore, chi è un bell’umore, è quasi sempre tale nelle stesse sventure: sa trovarvi il lato piacevole, sa mostrarsi bell’umore anche quando non è di buonissimo umore. Anzi quello è più bell’umore e più originale, a chi le stesse scappate di mal umore sentono del piacevole.
In dice lo stato presente; di può denotare stato un po’ più prolungato. Anche gli uomini d’umore tranquillo non sono sempre in umor di soffrire ogni soverchieria; anche gli uomini d’umore violento non son sempre in umore d’andare in bestia. Il primo avviso serve per i forti, il secondo pei deboli; vale a dire, coloro che si credono forti, e coloro che si credono deboli.
In umore s’usa più assolutamente. Volete voi giocare un poco? non mi sento in umore (qui d’umore, non sarebbe evidente); oggi mi sento d’umore di ridere.

1638

Fantasticare, Arzigogolare, Almanaccare.

Varchi: «Fantasticare... arzigogolare, si dicono di coloro i quali si stillano il cervello pensando a fantasticherie... ed arzigogoli, cioè a nuove invenzioni, e trovati strani e straordinarii, i quali o riescono o non riescono». Questa definizione è più propria a arzigogolare che all’altro [Varchi: «I’ ho fantasticato tutta notte Quel che si sia l’ambrosia che gli Dei Mangiano in cielo. Infin le son ricotte»]. Anzi colui che arzigogola, lo fa, d’ordinario, per fine di scoprire qualche nuovo spediente del quale abbisogni. Per arzigogolare si fantastica; ma non ogni fantasticheria è arzigogolo. Fantasticare ha usi più generali. Le cose dagl’increduli fantasticate contro la verità religiosa, son talvolta più meschine degli spedienti che lo scroccone arzigogolando ritrova per non pagare i suoi debiti.
Almanaccare ha senso affine a arzigogolare; senonché cade meglio dove si tratti d’indovinare qualcosa, com’indica la radice del vocabolo stesso: ovvero di trovar pensiero o spediente tanto difficile che sia quasi da indovinare. Nell’arzigogolare guardasi piuttosto la sottigliezza; nell’almanaccare, la difficoltà.
Il primo, innoltre, pare indichi un pensiero meno lontano dal coglier nel segno; il secondo può essere un pensamento più vano. L’impostore sa per arte arzigogolar con profitto; v’è di quelli che almanaccano giorno e notte per imbrogliare il prossimo, e non ci riescono. Bisogna nascere.
Fantasticare ammette anco il quarto caso, ma non gli altri due.

1639

Armeggione, Cincischione, Almanaccone, Arzigogolone, Appaltone.

Cincischione, chi non esce di nulla, chi per tutto trova inciampi che lo fanno procedere lentamente. È men biasimo d’armeggione; in questo entra più direttamente la volontà. Il cincischione, forse, non s’avvede d’esser tale; l’armeggione cerca a bella posta di perdere il tempo. I grassi son per natura cincischioni; gli svogliati, armeggioni. Un vecchio tormentato dalla gotta o da altri incomodi, in celia si chiamerà cincischione, armeggione no. Potrà chiamarsi con questo nome quando sia così per natura.
Ma armeggione ha altresì senso affine a almanaccone, arzigogolone; cioè imbroglione. Allora arzigogolone è il peggio; poi ne viene almanaccone, e da ultimo armeggione. Armeggione fa pensare uno che mette a tortura il cervello per imaginare finzioni, inganni. Almanaccone sveglia l’idea di persona tanto avvezza a imbrogliare, che indovini, o pretenda d’indovinare la via più sicura per riuscirci. L’arzigogolone è più destro e più complicato; si dice d’uno che, se gli falla un’astuzia, ne trova un’altra e poi un’altra, finché non sia giunto al suo fine. Gli è un ragno che a forza di fila ordisce la tela, per acchiappare l’insetto e succiargli il sangue.
Appaltone ha senso un po’ distinto da’ precedenti. Denota l’abitudine di sopraffare altrui con parole, con bravate; per ingannare, o per soddisfare un soverchio amor proprio. I così detti cavalocchi meritano, per lo più, il titolo d’armeggioni, d’almanacconi, d’arzigogoloni. A certi letterati maldicenti, millantatori, che intendono di farsi nome censurando i migliori, sta bene quel d’appaltoni. – Meini.

1640

Armeggiare, Abbacare, Annaspicare.
Abbacare, Mulinare, Fantasticare.
Annaspicare, Confondersi, Imbrogliarsi.

Abbacare, metter la mente in un’idea complicata, senza però smarrire la direzione del pensiero, o, come suol dirsi, la bussola [Firenzuola: «Ecco qua il Dormi: che va egli abbacando?» Se il Varchi afferma che si possa dire: tu àbbachi, ad alcuno che «fa o dice alcuna cosa sciocca o biasimevele e da non dovergli, per dappocaggine e tardezza sua, riuscire», questo sarà stato al tempo dei Varchi, ma non è più nella lingua vivente]. Armeggiare, oggidì, nel traslato ha i sensi seguenti: l. Muoversi qua e là, e far atti senza un fine evidente, senz’ordine: un fanciullo armeggia con le sue bagattelle. 2. Fare un movimento, e quindi un rumore di cui non sia ben noto il perché né il come a chi ascolta. Così diciamo: sentivo armeggiare nella stanza vicina. 3. Vagare in un’idea, e far con la mente quasi que’ movimenti indeterminati ch’indica la voce nel senso materiale: quindi talvolta, per estensione, d’avvilupparsi e confondersi. Annaspicare, vale: imbrogliarsi in un pensamento di modo che la stessa azione del pensiero accresca l’intrico. In queste dichiarazioni guardiamo le tre voci nel lato che sono più affini; giacché, se volessimo guardarle in altro, dovrebbe notarsi che armeggiare e annaspicare dicesi e dell’azione e del discorso, abbacare, del solo pensiero. Ma quando tutte e tre s’applicano al pensiero, differiscono in ciò, che l’abbacare è meno dell’armeggiare e questo men dell’annaspicare; che a tutti è facile, fantasticando sopra una cosa, abbacare; che le teste deboli armeggiano, le confuse annaspicano. S’abbaca cacciandosi innanzi in un pensamento; armeggiasi girandogli intorno; si annaspica aggirandovisi, a così dire, sopra. Un metafisica risica d’abbacare; un politico, d’armeggiare; un improvvisatore, d’annaspicare. Si abbaca per trovare un partito; s’armeggia anco semplicemente per esercitare il pensiero; s’annaspica per non saper continuare il corso delle idee. L’abbacare è una specie d’intensione della mente; l’armeggiare è un’azione vaga, rallentata, a caso, talvolta a sollazzo; annaspicare è azione impedita, scompigliata.
Tutte e tre voci dello stil famigliare; ma non gioverebbe, cred’io, espellerle dalla lingua, giacché l’equivalente non hanno. Abbacare non è mulinare, che indica pensamento più sicuro, più determinato, e dicesi specialmente delle cose da farsi; non è fantasticare, che significa, come la voce suona, un pensamento meno pratico, meno diretto a ricercare, a indagare. Similmente, armeggiare non ha, ch’io sappia, vocabolo equivalente. Annaspicare non è tutt’uno a confondersi, a imbrogliarsi e simili; perché queste son voci generiche che comprendono non solo il pensiero e il discorso, ma il portamento, le azioni, il movimento de’ corpi: senonché imbrogliarsi è più famigliare di confondersi, e meno grave.

1641

Lambiccarsi, Stillarsi, Beccarsi il cervello.
Dare, Fare le spese al suo cervello.
Scervellarsi, Dicervellarsi, Vuotarsi il capo, Avere il capo vuoto, Non ci avere il capo.
Farci il capo, Far tanto di capo.
Stillato, Distillazione.
Capo vuoto, Testa, Zucca vuota.

Beccarsi il cervello è più famigliare di stillarselo, e anco di lambiccarselo.
Stillarsi il cervello, in indagine più difficile e non inutile affatto [Berni: «Stare in su’ libri a stillarsi il cervello»; «E scriveva e stillavasi il cervello»]; lambiccarselo in sofisticheria, in cose difficili, perché la piccolezza della nostra mente tali le rende [Redi]; beccarselo in pensieri piccoli, inconvenienti, colpevoli [Bellincioni: «L’invida gente... Sempre in dir male il suo cervel si becca». Varchi: «D’uno che fa i castellucci in aria, si dice: egli si becca il cervello»]. Chi si stilla il cervello per conoscere il bene laddove non è; taluno se lo lambicca per dir bene di chi non n’è degno, e chi se lo becca per dir male. Non vi lambiccate il cervello per dimostrar cose chiare; non ve lo beccate per abbuiare le cose evidenti, per rendere ragioni meramente naturali di cose che trascendono la natura; non ve lo stillate per esporre in maniera singolare cose già note, e che parrebbero più nuove a esser dette semplicemente. L’uomo di ingegno arguto, diligente, tenace, si stilla volentieri il cervello; l’uomo d’ingegno accorto, tortuoso, frugatore, se lo lambicca; l’uomo d’ingegno gretto, impotente, invido se lo becca.
Le differenze non sono costanti. Talvolta diciamo stillarsi, di cose dappoco, e in mai senso; ma di cose gravi e in senso buono, nessuno userà gli altri due.
Veramente, nel proprio, lo stillare e il distillare è l’effetto del lambiccare; ma questo secondo richiamando addirittura l’imagine del lambicco, suona più materiale. E perché quell’altro denota operazione già riuscita, però può, talvolta, significare sforzo non impotente. Anco i grandi debbono un po’ stillarsi il cervello per trarne il sugo del vero, per ridurre il molto in poco; ma il lambiccarsi o è de’ deboli, o di coloro che per orgoglio o vana curiosità si fanno minori di sé.
Nel proprio, dicesi e distillare, e stillare, ma del cervello, più comunemente il secondo. Nel proprio, talvolta, distillare par che denoti meglio l’operazione che si viene facendo; stillare, l’esito. Onde lo stillato, dice il prodotto della distillazione; e nel traslato, l’essenza, la parte più sottile ed eterea. Lambiccare s’usa in Toscana anche assoluto: che state voi a lambiccare? E val sempre pensiero o cura soverchia, minuta, non senza stento.
Diciamo, poi, concetto, espressione lambiccata, troppo raffinata, ricercata, peccante di sottigliezza e di stento: difetto della nostra età comunissimo.
Dar le spese al suo cervello, vale: star sopra sé raccolto in un serio pensiero. Viene forse dal riguardare il pensiero come bisognoso di nutrimento, acciocché possa operare; bisognoso che gli si facciano quasi le spese. Troverà poi ragione di ciò più profonda chi pensi che spesa e pensiero hanno comune origine da penso, pendo, pesare, onde il pensiero è una continua misura che fa l’anima di quanto sente con una verità che l’è norma; il pensiero è una spesa continua che fa l’anima per acquistare il necessario all’intima vita; nella quale spesa può essere e prodigalità e avarizia; dev’essere economia provvida e generosa. Questi pensieri mi si destano alla domanda che muove il signor Zecchini, biasimando quel modo toscano. I modi sviati dall’origine loro nel linguaggio d’un popolo (dico del vero popolo, non de’ letterati né de’ ciamberlani), hanno sempre un’intima ragione, che giova meditare anche quando non s’intenda approvarla [I Toscani dicon anco: dare e fare un poco di spesa al suo cervello; e così vengono variando i medesimi modi secondo che le convenienze richieggono, né è dizionario, per grande e minuto che si voglia, che possa numerare, non che dichiarare, siffatte delicatissime varietà].
Scervellarsi è più, e dicesi anco dicervellarsi. Ma scervellato vale altresì, di poco cervello, chi non se lo può lambiccare perché non n’ha.
– Tra le locuzioni affinissime alle notate, è anche in uso vuotarsi il capo, che dice non tanto sottile esercizio come lambiccarsi il cervello; ma il molto e lungo esercizio della mente. – A.
L’uomo si vuota il capo anco a richiamare alla memoria cose che penano a venire; a mettersi nella memoria, cose che penano a entrarci o a starci adagiate. Dunque il riempirsi la memoria può essere un vuotarsi il capo, e lo sanno gli eruditi. Così le indigestioni preparano gli scioglimenti.
Avere il capo vuoto significa varie cose; è vuoto perché stanco dalla fatica, è vuoto perché leggiero (che più propriamente dicesi testa vuota, o, con più dispregio, zucca vuota; e quest’ultimo dice, oltre a leggerezza, ignoranza); è vuoto perché dolente e male atto ad attendere. Non ci avere il capo a una cosa, vale o non ci pensare davvero, o non ci voler pensare, o non ci poter pensare per istanchezza o indisposizione. Farci il capo, è averci pensato tanto o pensacchiato, o provatosi di pensarci, che non se ne intenda più nulla, neanco le cose chiare, e che vedevansi alla bella prima; né sappiasi fare quello che, a mente più riposata e più fresca, riuscirà a prima giunta. Fare tanto di capo, sentirsi stordito o da pensieri noiosi o da malessere o da rumori. I rumori, le ciarle, ci fanno tanto di capo. M’avete fatto tanto di capo, dicesi ad uomo parolaio, a che non parli a voce alta, se ci confonde e uggisce la mente.

1642

Imaginare, Imaginarsi, Figurare, Figurarsi, Fingere.
Imaginario, Fittizio.
Fingere, Supporre.
Supposizione, Ipotesi.

Imaginare, formare in mente un’imagine, quasi crearla, o almeno scolpirla o dipingerla dentro; imaginarsi, presentarla allo spirito, e crederla più o meno fermamente e sinceramente. – Beauzée.
Imaginare, pensare, inventare, congetturare; imaginarsi, credere alla imaginazione, alle proprie idee, stare persuaso a quel che s’è imaginato, farsene un pregiudizio, pensarci e godere di questo pensiero.
Chi imagina, figura la cosa; chi se la imagina, e se la figura e la crede così.
Uomo d’imaginazione viva e di testa debole s’imagina tutto quello che imagina. Dopo imaginato un sistema, un filosofo non s’imagina che il suo sistema possa essere da qualche parte imperfetto. Io non posso imaginare un vero ateo: ma posso credere che altri s’imagini d’essere ateo.
Chi ha letto di molto, sovente s’imagina d’imaginare cose nuove, le quali non però sono sue.
Per imaginarsi una cosa bisogna averne ricevuta una impressione profonda. Quel pazzo che s’imaginava d’essere padrone di tutte le navi ch’entravano nel Pireo, doveva aver molto pensato all’idea di ricchezza e di padronanza. Ma per imaginare una cosa, basta sovente un atto rapido del pensiero.
L’immaginazione è più attiva in chi imagina; in chi s’imagina è più forte, ma in modo che tiene del passionato, cioè del passivo: si può imaginare e non credere; ma l’imaginarsi trae la persuasione seco, o almeno suppone animo più disposto a dare importanza alle cose imaginate. – Roubaud.
Il poeta imagina, l’artista figura; quello è un creare l’idea; questo, la forma. L’artista vero, prima di figurare, imagina; il vero poeta, e anco il prosatore potente, quel ch’ha imaginato, figura acconciamente in parole efficaci.
Imaginarsi e figurarsi ritengono la gradazione medesima. Io m’imagino una cosa, se la suppongo di pianta; e mi figuro i modi, gli andamenti, le condizioni di cosa o di fatto che già conoscevo in genere.
Altre volte il figurare riguarda un imaginare più prossimo a finzione che a vero imaginamento; altre volte un imaginare meglio determinato. Nel primo senso i Toscani dicono: gli è tutto un figurarselo; e così rispondono con eloquente ironia a chi si figura d’essere o bello o amato o grand’uomo o gran liberatore o cosa simile. Nel secondo, l’artista, dopo imaginato il concetto del suo lavoro, ne vien mano mano figurando i particolari; né potrebbe figurarli in opera visibile o in parole se la sua imaginazione non gli figurasse dentro gli oggetti, siccome dotati ciascuno di sua propria vita.
Figurasi il vero; imaginasi il verisimile. Invece d’imaginare a fanfera, i poeti dovrebbero pensare e figurarsi le cose chiaramente così come sono.
Quando mi si narra un fatto a me ignoto, del quale però posso farmi un’idea, dico: me lo figuro. Quando uno mi racconta qualcosa di straordinario, comincia col dire: s’imagini che...
Fingere è più di figurarsi, sebbene abbiano la radice medesima. È difficoltà nell’imaginare, sovente, più che nel fingere.
I poeti finsero le Naiadi; il poeta imagina la tragedia storica.
Molti confondono l’imaginare col fingere, e credono che laddove non è questo, quello non sia. Ma sovente nella finzione è meno imaginativa che nel dipingere la realtà: giacché le finzioni possono essere o imitate o mal raccozzate o sparute; all’incontro, imaginare la realtà, qual’è stata, non si può senza supplire di molti vuoti, indovinar molti fatti e sentimenti; senza veramente creare; creare meditando, componendo, esponendo.
Finzione indica talvolta l’espressione di non veri concetti o affetti, e dicesi dell’animo e delle parole e degli atti; l’imaginare è sempre della mente. Taluni fingono di sentire, e non sentono; molti s’imaginano di aver ragione, e non l’hanno.
– Il fittizio suole simulare il vero; l’imaginario, no. Certi grandi hanno virtù fittizie, paure imaginarie. Gl’ipocriti hanno virtù fittizie; gl’ipocondriaci, malattie imaginarie. – Scalvini.
Fingiamo, supponiamo, sono nel discorso due modi d’esemplificazione e di concessione; ma fingiamo è più forte. Supponesi cosa che forse è, o che potrebb’essere; fingesi, talora, anco l’impossibile, per rendere il proprio argomento più calzante. Il matematico dice supponiamo ne’ suoi postulati. Il politico dice supponiamo; ma le sue supposizioni son tali che dovrebbe piuttosto dire: fingiamo. Supponiamo (dirà l’economista) che il sistema dei divieti sia tolto da tutta Italia. Fingiamo (dirà il metafisico) che Dio non sia. – Faure.
– L’ipotesi è supposizione che più ha dello scientifico. Un sistema è fondato sopra un’ipotesi; si fanno supposizioni audaci sulle intenzioni dell’uomo.
L’ipotesi può essere una serie di supposizioni collegate insieme e formanti sistema. Per ipotesi è modo che s’usa da taluni nel famigliare discorso; ma può riuscire affettato. – Romani.


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