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7. Per finire

Chi mi conosce sa bene che io sono ateo, marxista e statalista.

Ma non sono né cieco né sordo. Nel corso di quest’esame di Stato non ho potuto fare a meno di mettere a confronto le due situazioni che ho trovato.

All’Istituto statale d’Australia, non voglio dire che i ragazzi fossero tutti mal preparati; alcuni erano anche bravini, e abbiamo dato anche qualche bel voto - badando più ai valori relativi, s’intende, che ai valori assoluti. Ma su tutto dominava uno struggente senso di scoramento, di rinuncia. Una serie di magagne a malapena coperte. Preparazioni lacunose; «tesine» posticce, programmi svolti in modo approssimativo, addirittura in parte non svolti. Candidati che spesso balbettavano poche frasi sconnesse, che quasi non riconoscevano come propri i programmi svolti, che si esprimevano in lingua straniera come in una gag di Totò. Una classe che ha dato la netta sensazione di essere stata abbandonata a sé stessa per gran parte dell’anno scolastico.

Eppure la scuola è, almeno apparentemente, funzionante; ben attrezzata, lineare nella disposizione degli spazi e delle strutture. Gli insegnanti, almeno per quanto si può giudicare dai commissari interni, sembrano essere preparati, attenti, responsabili nel loro lavoro, partecipi ai problemi dei loro allievi. Ma non serve a nulla.

E quel che è peggio, tutto questo mi è sembrato perfettamente naturale. Come un’aria di casa - un’aria stantìa ma famigliare. Una scuola che nonostante i suoi sforzi non riesce più a centrare l’obiettivo, che è in primo luogo quello di dare ai ragazzi da una parte l’amore per lo studio, dall’altra la sensazione di essere seguiti, guidati. Da tanto tempo siamo immersi in un’atmosfera di abbandono, che non ci rendiamo neanche più conto della Caporetto che sta vivendo la scuola pubblica in Italia. Un desolante senso di impotenza è entrato a far parte delle nostre più radicate abitudini.

L’Istituto privato di Tasmania non è niente di speciale. Mica Harvard. Un gruppo di suorine volenterose, insegnanti laici arruolati con contratti temporanei, quasi tutti in attesa di una sistemazione nello Stato. Ma è una scuola che funziona. Non voglio parlare dei risultati in termini di voti, per quanto anche sotto quest’aspetto si possa notare una significativa differenza. Ma da nessuna parte si respira quella polverosa aria di sconfitta che caratterizza la scuola pubblica da qualche anno a questa parte. Le «tesine» sono a volte belle, a volte brutte, ma non danno mai l’impressione di essere confezionate con qualche fotocopia presa a caso dai primi libri che capitano sotto mano, tirate giù di brutto da un sito qualunque dell’Internèt. Nessuno che si provi a collegare la crisi del ’29 con Eugenio Montale, la gestione dei conti correnti bancari con Gabriele d’Annunzio. Esposizioni che, a volte, è un vero piacere sentirle, ed anche da ragazzi che non sono certo brillanti, e nelle altre prove mettono insieme una stentata sufficienza.

E quel che è peggio, anche questo mi è sembrato perfettamente naturale. Come una vecchia aria di casa - un’aria che una volta da noi si respirava liberamente. Non ho trovato in questa scuola di suorine nulla che non potrebbe esserci in una qualunque scuola pubblica; nulla che non abbia visto all’opera, fino a pochi anni fa, in almeno una parte delle classi che ho conosciuto.

Non è sempre stato così. Una dozzina di anni fa mi era già capitato di avere una doppia commissione, presso un istituto statale e un istituto privato, di suore pure quello. Il rapporto era rovesciato. Tanto erano vivaci intellettualmente, aggiornati, pronti nella discussione i ragazzi della statale, altrettanto erano incerti e limitati i candidati della scuola religiosa. Nella statale si vedevano insegnanti di diversa impostazione culturale capaci di confrontarsi fra di loro, ma anche di rispettarsi e di lavorare insieme; ragazzi che, almeno verso alcune materie del loro corso di studi, manifestavano un autentico interesse, al di là della semplice routine scolastica. Nell’istituto religioso invece una diffusa piattezza, un’apparente diligenza che però mascherava appena una preparazione spesso superficiale.

Che cosa è successo in questi ultimi dodici, quindici anni? Come abbiamo fatto a ridurci in questo stato? Chi lo sa.

Come fare a rimediare? A fare in modo che le cose che ci sono - e che non aspettano altro che di mettersi a funzionare - tornino a funzionare di nuovo?

Per carità, non sto chiedendo nessuna riforma strutturale, nessuna rivoluzione ciclica, nessuno scoppiettìo di POF. Abbiamo già dato e preso.

Forse, per cominciare, basterebbe che la smettessero di romperci le palle.

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15 Luglio 2001

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