Mario Pavesi scrive:
È corretto scrivere «cosa?» Ai tempi della scuola mi hanno abituato, a forza di segnacci, ad usare «che cosa» o «che».
Questo è uno dei miti che stranamente la scuola continua a mantenere in vita – se non tutta la scuola, certi insegnanti che non hanno mai avuto una grande dimestichezza con Alessandro Manzoni, il quale fin dall’edizione «quarantana» del romanzo introdusse in abbondanza il cosa interrogativo, correggendo in questo senso quasi tutti i passi corrispondenti della «ventisettana».
Vediamo che cosa (cosa!) ci dà una breve spulciatura dai capp. I e II dei Promessi Sposi.
- «Cosa comanda?» rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggio.
- «Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo?»
- «Vuol dunque ch’io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto al mio padrone?» disse Perpetua, ritta dinanzi a lui.
- «Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica chiaro e netto cosa c’è ...»
- «Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare... tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!... quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è saltato il grillo di maritarvi...»
- «Ah cane!» urlò Renzo. «E come ha fatto? Cosa le ha detto per...?»
- «Vo un momento, e torno,» disse Lucia alle donne; e scese in fretta. Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, «cosa c’è?» disse, non senza un presentimento di terrore.
- Intanto la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia), messa in sospetto e in curiosità dalla parolina all’orecchio, e dallo sparir della figlia, era discesa a veder cosa c’era di nuovo.
Come si vede nella maggior parte dei casi, ma non in tutti, si tratta di discorso diretto.
Già i contemporanei del Manzoni sostenevano che quest’uso di cosa? fosse tipicamente settentrionale, anzi, lombardo. Avranno avuto le loro buone ragioni; io mi limito a citare i seguenti versi:
Nun capisciu cosa è stu Parramentu
siddu è ’ndiavulato o puru santu,
ca pàrtiri ni fa lu sintimentu:
misi sti pisi e fa paari tantu? ....Non capisco cosa è questo Parlamento,
s’esso è indiavolato oppure santo,
perché ci fa uscire di senno:
mise questi pesi (tasse) e fa pagare tanto ...
Questo è l’inizio di un lungo componimento il cui autore «è Vito Mangano di Mascalucia (Catania), soprannominato Scìddica-Sapuni (Scivola sapone), nato il 29 dicembre 1807 da poverissima gente e morto il 14 marzo 1870, di mestiere costruttore di aratri e di attrezzi per la campagna. Poeta estemporaneo, ebbe una larga popolarità per il piglio della sua satira, tanto che uno studioso del tempo lo chiamò «l’Aristofane di Mascalucia».» (Leydi, pp. 270-271).
Aggiungo che le grammatiche piemontesi contemplano il cosa? pronome interrogativo; ma mio padre, quando parlava nel dialetto di Santo Stefano Belbo, non lo usava mai: la sua forma interrogativa era «lòn che ’t fase? lòn che ’t veule?» (che fai? che vuoi?). Ed anche al mio orecchio l’interrogazione con cosa? in piemontese suona come italianismo.