Venerdì 21 gennaio 2000    scrivimi@mauriziopistone.it    strenua nos exercet inertia    Hor.

Lingue classiche

L’analisi logica e l’insegnamento del latino

A proposito dell’analisi logica nella didattica del latino ho letto un interessantissimo saggio di un corrispondente della lista dwsup-lettere. L’autore mi ha cortesemente autorizzato a pubblicarlo.

Nicola Flocchini
Terminologia grammaticale, analisi logica e didattica del latino

La terminologia che viene utilizzata per l’analisi logica non è nata nell’antichità, ma fra il XVII e il XVIII secolo sulla scia del grammaticalismo razionale fiorito a Port Royal, quando, sotto l’impulso del razionalismo tipico dell’età illuministica, si cercò di mettere a punto una «grammatica universale e ragionata», sulla base della convinzione (già cara ai Modistae medievali) che le lingue avessero tutte la medesima «sostanza» e variassero solo per gli «accidenti». Forti di questa certezza (la grammatica storica e comparata era ancora di là da venire!), fu messa a punto un tipo di analisi del linguaggio «razionale» e «universale», perché condotta con categorie logico-sintattiche ritenute valide per qualunque lingua, con il fine dichiarato poter passare facilmente da una lingua all’altra: nel 1660 C. Lancelot e A.Arnauld pubblicarono un testo dal titolo lunghissimo ma molto significativo: «Grammatica generale e ragionata che contiene i fondamenti dell’arte di parlare, spiegati in modo chiaro e naturale, nonché le ragioni di ciò che è comune a tutte le lingue e delle loro principali differenze». Lo strumento che avrebbe dovuto permettere di analizzare con categorie logico-sintattiche universali tutte le lingue fu «l’analisi logica», nella quale vennero riprese le categorie care alle «grammatiche speculative» del Medioevo, con la tipica commistione fra logica e grammatica (si pensi alle definizioni «ontologiche» di soggetto, oggetto, ecc.). Naturalmente la grammatica per eccellenza, sulla base della quale vennero elaborate quella di tutte le altre lingue (anche non indoeuropee!) fu la grammatica latina, una grammatica «razionale», costruita secondo un rigoroso schema cartesiano e sulla base di «regole» ben definite. L’analisi logica uscì presto dal chiuso della ricerca ed entrò, dapprima in Francia e quindi in Italia, anche nella didattica delle lingue, e la grammatica latina, costruita secondo gli schemi dell’analisi logica, assunse il ruolo di «supergrammatica» e costituì, sino a non molti anni, fa l’unica forma di educazione linguistica.

L’analisi logica costituì dunque anche la base del metodo per l’insegnamento del latino dal ’700 ai nostri giorni (o quasi), un insegnamento programmaticamente orientato alla traduzione dalla lingua materna al latino: si parte dalla frase italiana, la si analizza utilizzando le categorie dell’analisi logica, ci si chiede quale veste sintattica richiedano in latino tali categorie, si opera la trasposizione. Stabilito, ad esempio, che nella frase «Sono fuggito per paura», il sintagma «per paura» è un complemento di causa, si dovrà cercare come il sistema linguistico latino riempie la casella relativa al complemento di causa (ablativo semplice, ob/propter e l’accusativo ecc.). E quando la casella rimane vuota, perché manca una forma «corrispondente», come nel caso dell’infinito futuro di un verbo privo di supino? si ricorre allora a costrutti analogici o presunti: l’importante è che nessuna casella del sistema rimanga mai vuota e che tutto si inserisca in un ordine cartesiano.

Il latino, a questo punto, cessa di essere una lingua come tutte le altre per diventare LA lingua «razionale», «logica», «rigorosa», «affine alla matematica», capace, quindi «di quadrare la mente» e di «insegnare a ragionare».

Neppure la grande stagione della grammatica storica comparativa dell’800 e la linguistica postsussuriana del ’900, scalfirono il «Nuovo Metodo» nato a Port Royal (La Nouvelle Methode pour apprendre facilement et en peu temps la langue latine pubblicato da Charles Lancelot nel 1644 e tradotto in Italia nel 1737 fu la grammatica latina di riferimento in Europa), benché sia l’una che l’altra avessero demolito le basi teoriche su cui si reggeva.

Non sarebbe ora di prenderne atto e di cercare di introdurre, senza peraltro buttare a mare una tradizione didattica che, per molti versi, fa parte della nostra cultura, qualche correttivo che restituisca al latino il suo valore di lingua «vera» e non di «lingua grammaticale?». La linguistica ha fatto piazza pulita di tanti pseudo-concetti, e nell’insegnamento della lingua materna e delle lingue straniere ha lasciato un segno ben visibile, ma pare che per l’insegnamento delle lingue classiche non sia in grado di dare alcun contributo, se non molto marginale e più di facciata che di sostanza.

Che sia vero quanto scriveva J. Marouzeau nel 1923? «Noi tutti, professori e studenti, per quanto riguarda lo studio delle lingue morte, viviamo su concezioni che hanno fatto il loro tempo. Siamo schiavi di vecchie abitudini e di metodi superati... Noi professori troviamo comodo insegnare qual che abbiamo a nostra volta imparato come lo abbiamo imparato, con i libri e gli appunti che abbiamo conservato dai nostri anni di studio». E poche pagine più avanti il Marouzeau indica anche la via da seguire per il rinnovamento: la linguistique et la philologie (Le latin, Paris, Didier, 19272).

Mi rendo conto che non è facile buttare a mare consolidate certezze (i libri e gli appunti di cui parla Marouzeau), personalmente sono fautore di un «cauto eclettismo» (adelante, Pedro, cum judicio!), ma sono anche convinto che non sia più possibile continuare con un percorso didattico «tradizionale», pena la scomparsa del latino dai curriculi della nostra scuola superiore o la sua «ghettizzazione» in una scuola superspecialistica.

Ovviamente non ho ricette, anche se personalmente mi batto perché, almeno, si rispetti la specificità del sistema linguistico latino, centrando l’attenzione sulla SUA logica, in prospettiva contrastiva con la lingua materna. E questo vale in particolare per il concetto di caso, che non rientra in alcun modo nella consuetudine di un parlante italiano: lo sforzo del docente, a mio parere, dovrebbe essere rivolto a far entrare l’alunno nella «logica» del latino, facendogli capire che ogni caso raggruppa un certo numero di funzioni sintattiche, attorno ad alcune grandi funzioni logico-semantiche (il nominare, il determinare, il destinare, il movimento ecc.): il ragazzo, in altri termini, quando incontra un dativo, non deve, a mio parere, associarlo meccanicamente al complemento di termine, ma all’idea della «destinazione», che può poi esprimersi in un ventaglio di possibilità, come termine dell’azione verbale, come fine, come vantaggio, come possesso ecc. Il percorso, oltre che più rispettoso della «logica» della lingua latina, è anche decisamente più economico rispetto all’obiettivo (comprendere un testo latino e tradurlo in italiano e non trasferire in latino qualsiasi frase italiana). Una impostazione di questo tipo, oltretutto, rispecchia anche le riflessioni che gli antichi (naturalmente greci) fecero a proposito della loro lingua, a partire dalle considerazioni che sul caso fece Dionisio Trace. Si veda al proposito L. Tusa Massaro, Sintassi del greco antico e tradizione grammaticale, Epos, Palermo, 1993, pagg. 32 e segg.: il discorso è, ovviamente, sul greco, ma molte osservazioni possono benissimo riguardare anche il latino.


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