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Polemiche scolastiche


Lungo pistolotto sulle promozioni virtuali

A costo di passare per un grezzo manicheo, vorrei ricordare che esistono sostanzialmente due idee di scuola.

Una, che con brutale semplificazione definisco "di sinistra", secondo la quale la scuola pubblica, gratuita e uguale per tutti è stata una grande conquista democratica dell’età moderna. Per "uguale" non intendo una piatta uniformità, ma l’impegno di assicurare a tutti, qualunque sia la condizione sociale di partenza, le medesime opportunità di apprendimento.

Due sono i corollari di questo sistema:

  1. la libertà didattica, che è
    1. l’impegno, da parte dei docenti, di dare il meglio di sé, attuando, secondo la propria personale impostazione culturale e didattica, le finalità generali dell’insegnamento definite da programmi nazionali;
    2. la libertà di valutare senza pressioni esterne il raggiungimento dei livelli richiesti da ciascun indirizzo di studi;
  2. il valore legale del titolo di studio, che certifichi, secondo parametri condivisi ed omogenei, competenze effettivamente conseguite.

Ritengo che questa impostazione sia, per i ceti poveri, quella che assicura le migliori opportunità di avanzamento, riequilibrando, almeno in parte, gli svantaggi di una disagiata condizione sociale e culturale di partenza.

L’altra idea di scuola, che altrettanto brutalmente definisco "di destra", disconosce l’importanza di un sistema di istruzione pubblico e omogeneo, lasciando che sia la selezione del mercato ad assegnare un valore alle preparazioni conseguite da istituti, pubblici o privati, che agiscono in totale autonomia.

Quest’altra impostazione, a mio parere, non solo non può compensare, ma aggrava le disparità iniziali, in quanto i poveri saranno portati, per tanti motivi che qui sarebbe lungo spiegare, a frequentare le scuole meno valide, e ne conseguiranno una preparazione non spendibile sul mercato.

Il sistema scolastico italiano, non perché è di tipo "sovietico", come farneticano i berluschini, ma perché porta nei suoi caratteri originali l’impronta del grande riformismo liberale ottocentesco, apparteneva al primo tipo. Ora si sta rapidamente trasformando nel secondo tipo, sotto la pressione di due forze concomitanti e solo apparentemente opposte:

  1. un riformismo "epocale" di impostazione aziendalistico-liberista, già avviato nei decenni precedenti, e divenuto marea inarrestabile nell’attuale gestione morattiana, caratterizzato da:
    1. criteri puramente quantitativi di "produttività" (il cd. "successo formativo"), con conseguente abbassamento progressivo degli obiettivi culturali e formativi della scuola;
    2. l’esasperazione delle differenziazioni fra gli istituti (cd. "autonomia");
    3. il sostegno alle scuole private (cd. "parità");
    4. lo svuotamento di significato del titolo di studio, già strisciante da decenni e ora pienamente compiuto con l’esame "di Stato" fai-da-te, non a caso prima (e decisiva) innovazione della gestione morattiana.
      L’esame fai-da-te ha reso, per definizione, tutte le scuole "paritarie" dei diplomifici, indipendentemente dalla serietà del corpo docente, in quanto esse vendono un diploma riconosciuto dallo Stato senza alcun controllo da parte dello Stato; ed ha trasformato la scuola pubblica nel teatro di un patetico rituale autoassolutorio, in base al nefasto principio che "la scuola che boccia, boccia sé stessa, e la scuola che promuove, promuove sé stessa".
  2. Un atteggiamento pietistico di una parte rilevante del corpo docente, che considera la promozione non come un riconoscimento della preparazione raggiunta, ma come un’elemosina che non si nega a nessuno. È la vecchia idea cattolica che "non è importante che il popolo sia istruito, l’importante è che sia buono", rivista con gli scarti del pensiero di Don Milani, e condita con un po’ di sano vecchio clientelismo ("io i miei li aiuto"). A questo aggiungiamo i peggiori cascami dell’ideologia sessantottina, ancora coltivati da ultracinquantenni che si rifiutano di crescere; e un bel po’ di italicissimi "ma chissenefrega", "non voglio grane", "tanto ci penserà la vita a bocciarlo". È stupefacente come queste frattaglie ideologiche siano riuscite a conglomerarsi, formando lo zoccolo duro dello sbracamento scolastico; un magma che non ha ancora sommerso la totalità del nostro sistema scolastico, ma riesce già a condizionarlo pesantemente.

Tutti hanno sotto gli occhi gli effetti di questa impostazione: accanto ad un piccolo numero di scuole "d’eccellenza", frequentate dai figli della borghesia colta, abbiamo le scuole "paritarie", dove il diploma si compra a suon di quattrini, e dilagano i ghetti, dove senza alcun controllo masse di giovani perdono anni preziosi in attività insulse, in pure simulazioni di apprendimento, in (auto)assoluzioni in massa. Il ragazzo promosso, anno dopo anno, con insufficienze gravi in materie fondamentali, non solo non ha imparato quelle materie, ma soprattutto non ha imparato, e non imparerà mai, che cos’è lo studio, qual è il valore dell’istruzione; gettato nella giungla del mercato, vagherà stralunato per anni, cercando un lavoro per il quale non è assolutamente preparato, un’occasione, una raccomandazione, un banco al mercato; se è una femmina, un marito facoltoso. Si vedrà ogni volta sopravanzato da uno più preparato, più fortunato, più raccomandato, più danaroso, più spregiudicato (se femmina, da una più figa); e neppure capirà perché. Alla fine si sistemerà anche lui, in qualche modo; ma nessuno gli restituirà gli anni buttati inutilmente in una scuola senza senso, nessuno gli leverà il marchio di ignorante figlio di poveracci. In una parola: una scuola ferocemente, darwinianamente classista.

10 luglio 2004

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