Martedì 3 novembre 1998    scrivimi@mauriziopistone.it    strenua nos exercet inertia    Hor.

EGLI

1485

E’, Ei, Egli, Gli, Esso.
Egli è, È egli.
I’, io.

E’ per egli vive in Toscana, e ha suoi usi, comodi non men che gentili.
Gli antichi accompagnavano il pronome al verbo in forma quasi impersonale, e dicevano: egli mi pare, egli mi dispiace, mi duole. In Toscana il popolo qui pure pone l’e’, dicendo: e’ mi pare, e simili; e questo, che non è riempitivo ma compie l’ellissi, famigliare anco a’ buoni scrittori [Boccaccio: «E’ mi pare». Dante: «E’ m’incresce»], dona alla locuzione certa morbidezza che piace.
L’e’ si congiunge al plurale [Boccaccio: «Chi e’ fossero»]; l’egli non più, come un tempo, se non quando vocale gli segua: egli andavano, egli hanno. Parlando di certi incontentabili giudici delle cose altrui, vien voglia di dire: e’ son pure severi a lor proprio danno; egli sono parrebbe strano. Affettazione inutile, l’elli del Perticari.
L’e’ tien le veci e dell’egli e dell’esso; ha dunque uso più largo del primo, perché s’applica e a persona e a cosa. Nelle interrogazioni, dove il pronome va necessariamente posposto, l’e’ non ha luogo: vi par egli? diciamo; e non si può dire altrimenti. Giova notarlo, perché taluni nell’interrogazione si dimenticano di posporre il caso retto al verbo; e, mettendolo innanzi, lasciano in dubbio se s’interroghi o no. Altr’è dire: egli è un onest’uomo? altro: è egli onesto?
L’e’ torna in molti luoghi più acconcio, perché l’egli o l’eglino, o l’esso, toglierebbe al dire speditezza o grazia o armonia. Ei converrebbe tralasciarlo, come inutile, e come alquanto affettato; giacché l’e’ apostrofato è non men puro e più spedito, e comune al singolare e al plurale, e (ch’è il meglio) ammesso dall’uso vivente.
Qui giova notare che la lingua parlata ama molto, per più chiarezza, i pronomi egli, io, tu innanzi al verbo; e che l’ometterli, come fanno certi scrittori per certa fittizia dignità dello stile, moltiplica le ambiguità e toglie a quello la facilità e l’evidenza, che n’è il più bel pregio [Il popolo, seguace fedele dell’uso antico, osserva, non meno dei Francesi, la regola del non usar mai, o quasi mai, verbo senza soggetto espresso, sia nome o pronome. Quindi il la nel femminino, usato come l’e’ mascolino. La mi piace, l’è bella, la ride. – Lambruschini].
Il simile dicasi della forma gli, che, in luogo dell’egli e dell’e’, si prepone a vocabolo che cominci da vocale: gli è vero, gli è giusto. Egli, in questi casi, riuscirebbe talvolta un po’ pesante; il verbo solo, un po’ secco. Gli fa il dire più pieno e più snello [Ariosto: «Gli è teco cortesia l’esser villano». Berni: «Gli è ben fornito»].
E a proposito di pronomi apostrofati notiamo che i’ per io vive in Toscana, e non è punto più ignobile di de’ per dei, dugento per duecento, e simili altri in gran numero; non è da usare a caso, ma può cadere opportuno. Io ero sarà certo men dolce che i’ ero. E ogni uomo di buon gusto vedrà la convenienza del ritenere questo che è un idiotismo di Dante [Se invece di «Dirò dell’altre cose ch’i’ v’ho scorte», leggessimo «ch’io v’ho scorte», ogni non sordo orecchio sentirebbe la differenza].

1486

Egli, Esso.
Egli, Eglino.
Quegli, Queglino.
Per esso, Per lui, Per questo.
Con esso lui, Con lui stesso.

Ognun sa ch’egli è proprio di persona, esso di cosa; ma che il primo talvolta s’applica a cosa, e il secondo a persona. Quando diasi al pronome la forza dell’ipse latino, un senso cioè poco men forte di egli stesso, l’esso ci cade [Boccaccio: «Non a quella chiesa ch’esso aveva anzi la morte disposto, ma alla più vicina il portavano». Taluni, senza accompagnamento di nome, dicono di esso, invece che di lui o di quello: che mi pare inelegante, segnatamente nella fine del periodo o dell’inciso; né la lingua parlata lo comporterebbe]. Così ne’ casi obliqui talvolta può venire opportuno [Nell’ode d’Alessandro Manzoni, se pur poetico fosse il dire Esso fu, non sarebbe né grammaticale né logico. Dante, nel XVII del Purgatorio: «Io sono essa che lutto». Nella qual forma, a questo modo antiquata, scorgesi il vero significato dell’esso, che risponde al latino «ego sum ipsa: ipsa ego». Onde la locuzione: quel desso, ille ipse. - A.].
Egli, viceversa, s’applica ad altro oggetto che a persona, quando la cosa riguardasi come personificata. Facendo parlare certe bestie [Eglino più propriamente riguarda persona. Così queglino, che adesso è più rado, non si direbbe che di persona, dove quelli, anco di cosa], ragionando figuratamente della virtù, dell’amore, non disdirà punto [Varchi: «Il viso tuo favella, egli». Conti: «Il cor meco s’adira ed io con lui». Petrarca: «Più veggo il tempo andar veloce e leve, E il mio di lui sperar fallace»]. Terribile cosa è il genio a sé stesso; egli, censore severo de’ proprii difetti, la forza della coscienza rivolge sovente in proprio tormento. Egli, quand’è riempitivo, preposto al verbo; esso, quand’è riempitivo, posposto al con o a lungo o al sovra, ognun vede non potersi scambiare [Sulle bocche de’ contadini toscani, e nel Veneto, ello vive; ma in Toscana soltanto ne’ casi obliqui. Andar per ello, o per ella, o per elli, o per elle, dicono, come nelle città andar per esso, per essa, e simili. – Lambruschini][Non li unirebbe l’andare per con altro pronome che l’esso, intendendo dell’andare a cercare o prendere persona o cosa. Vo per esso, vale dunque, vo per chiamarlo o vedere dov’è: vo per lui, vale: per sua cagione o comando, o colpa o merito; per amore o odio di lui, ci vo. Vo per questo, suonerebbe, neutro: vo per questa ragione]. Ma i modi lunghesso il fiume, sovresso il muro, non sono oggimai usati: con esso lui e simili ha tuttavia qualche vita, e potrebbe avere uso ragionevole, quando l’esso non sia mero riempitivo, ma tenga dell’originario valore, e suoni quasi lui stesso, lui medesimo, sebbene un po’ meno.

1487

Egli, Lui, Ella, Lei.

Spesso i Toscani dicono famigliarmente oggidì lui per egli, lei per ella; e un ingegno non toscano, altamente autorevole, ci persuaderebbe a attenerci a quest’uso. Ma si comincia che neanco in Toscana, neanco in Firenze tutti dicono sempre lui e lei: se il pronome è da preporre, fanno ora e’, ora gli, ora egli; e nel femminino, la ed ella. Che vuol ella? sentesi a tutto andare. Che vuole lei? ha altro senso, è un rivolgersi quasi con provocazione, o con impazienza, ovvero un distinguere determinatamente la persona a cui si parla, da altre che vogliono o possono voler altro, o il medesimo in simile o in altro modo. Sente ella? è un semplice domandare se il tale senta. Sente lei? è un domandarlo quasi discernendolo da altri, o anco una forma di rimprovero o di minaccia. Dunque i due modi sono da ritenere e perché dell’uso, e perché utili a luogo ambedue. Egli lo dice, è un affermazione semplice; lui lo dice, ferma più l’attenzione su quel tale; e ancora più ce la ferma lo dice lui, che può suonare: non altri che lui lo dice; egli ci ha le sue ragioni di dirlo, e noi di non credere.
Dall’altro canto son troppo rigidi coloro che il lui e il lei rigettano e dannano. Il Petrarca: «Ciò che non è lei, Già per antica usanza odia e disprezza». Dire ciò che non è ella, neanco in prosa potrebbesi. Così è lui vale: non è altri che lui; par lui, somiglia a quel tale: non, par egli, è egli, che suonerebbe interrogazione. E in quel modo che dicesi come te, così si può, e in certi luoghi bisogna, come lui. Faccia egli suonerebbe affettato; faccia lui, più spedito.
Ma chi sbandisce l’egli e l’e’, non potendo poi cacciare il lui senza sconcio, dove pure un pronome si richiederebbe, taglia fuori il pronome; e per voler essere troppo fiorentino a suo modo, cessa d’essere italiano.

1488

Ella, La.

La per ella nel primo caso è condannato dalla vecchia Crusca, sebbene non ne manchino esempi. Ma l’uso vivente toscano lo adopra, e non veggo perché debbasi rigettare. Da ello non facciamo noi forse lo? E questo la stesso non usiamo noi di continuo ne’ casi obbliqui? Aggiungo, che il la è non solamente comodo, ma necessario talvolta [Firenzuola: «Gli chiedeva sempre qualche cosettina, come la sapeva ch’egli andasse a città». Levate il la, e sentirete scemato il sapore di questo membretto elegante. Dite «com’ella sapeva ch’egli andasse» se vi dà l’animo. Medici: «La m’ha sì concio... Che più non posso maneggiar marrone»]; e anche quando per la chiarezza non è, dà grazia al dire e pienezza.
Quand’ella, poi, è adoprato come ellissi e vi si sottintende cosa, allora il la torna meglio il più delle volte: la va, la sta, la è. Voi non credete che un uomo religioso possa aver anima dignitosa e franca; ma la è proprio così.
Nel plurale elle più non è della prosa; elleno può in qualche senso riuscir troppo lungo; le cade dunque opportuno.
Le, innoltre, può far le veci di esse, e ha uso però più generale di elleno [M.º Aldobrandino: «Le fa uomo segnare e cuocere appresso che le sono tagliate». Boccaccio: «Chi facesse le macine, belle e fatte, legare in anella prima che le si forassero». Novellino: «Il mulo sì gli mostrò il piè diritto di sotto, sì che gli chiovi pareano lettere. Disse il lupo: io non le veggio bene. Rispose il mulo: fatti più presso, ché le sono minute». In questi esempi il pronome così troncato pare ancor più necessario che comodo. E io credo che in quel del Boccaccio: «Elle non sanno delle sette volte le sei quello che elle si vogliono elleno stesse», debbasi leggere: «che le si vogliono»; perché l’amanuense scrivendo chelle, fece agli editori pigliar quell’equivoco. Che le, ivi, è assai più elegante e più dolce].
Né solo nel linguaggio famigliare, ma può nello stile più dignitoso talvolta venirne il destro. Al sentimento dello scrivente spetta discernere dove e quando.

1489

Ella, Lei.
Lei, Dessa.

Certo, che dove può dirsi ella invece di lei, meglio è. Ma c’è de’ casi ove il farlo è impossibile. Quand’io veggo una persona in lontananza, e mi pare di riconoscerla, e pur dubito se sia lei o non sia, come ho io a esprimere questo mio dubbio? Se sia ella? No certamente. Se sia dessa? Nemmeno. Tra i modi: è lei, è dessa corre differenza notabile. Questo secondo dice un’idea più chiara, più determinata, e molte volte accompagnata da desiderio; secondo la quale idea, nella tal figura io intendo conoscere la tale persona. Il primo modo non mi dà che o un sospetto o un giudizio scompagnato da desiderio, col quale giudizio io affermo a me stesso, non tanto di riconoscere, quanto di conoscere quella persona. Un uomo vede l’oggetto de’ suoi desiderii travestito o trasfigurato, o mutato comunque sia, sì che non può ravvisarlo alla prima; ma guardando meglio, lo ravvisa ed esclama: ella è dessa [Boccaccio: «Tu non mi par’ desso». Petrarca: «Ch’i’ grido: Ell’è ben dessa; ancora è in vita»]. Voi riguardate attentamente uno che vien di lontano, e vi pare un vostro conoscente; altri lo nega; voi dite: è lui! è lui senz’altro! Qui desso non entra. Un erudito trova un vecchio ritratto di Beatrice Portinari; lo confronta con le notizie che ne’ versi di Dante ci rimangono di lei, e nella gioia della scoperta conchiude: è lei! Qui l’è dessa non ci cadrebbe. Ma insomma il Dante del Pretorio è egli lui? Gli eruditi che lo conoscono da cinquecentosessantacinqu’anni, negano e giurano: non è desso.
Desso e quel desso dicesi ancora parlando dell’indole dell’uomo; onde: non esser quel desso, vale: cambiato d’animo, di costumi [Malmantile: «E n’ho sì gran terror, che vi confesso Che mai più de’ miei dì sarò quel desso»].
Lei per ella, parlando a persona, è usitato in Toscana, ma non dal popolo, il quale dice sempre: che fa ella?, non: che fa lei?, tenace anche in ciò dell’uso migliore. Adoprano il lei ne’ casi che abbiamo notati parlando di lui, per meglio distinguere, o con altra speciale intenzione.
Nel plurale poi s’usa loro per elleno; e in qualche caso, questa sgrammaticatura mi parrebbe richiesta dalla naturalezza del dire. Né è più errore questo dell’altro, ch’è in Dante, di lei per colei [«Lei che dì e notte fila Non gli avea tratta ancora la conocchia»]. E colei non è forse lo stesso che quella? E ambedue non vengono forse dall’illa latino?

1490

Esso, Desso.

Esso richiama il pensiero all’idea dell’oggetto già nominato o indicato; onde talvolta s’accompagna al nome ripetuto di quell’oggetto, sia nome proprio o comune; ed è meno pesante del troppo curiale «il detto testatore, la detta sentenza». Desso conferma la identità dell’oggetto; e dicesi, per lo più, di persona, o di cosa riguardata siccome persona. Esso usasi in tutti i casi: desso, nel primo e nel quarto. Esso, con tutti i verbi, e già con parecchie preposizioni: desso non va che co’ verbi parere ed essere. Gli è desso, par desso, vale: egli è lui medesimo, par proprio lui. Desso, adunque, non si può adoperare, come taluni fanno, per il semplice esso [Dante: «Questi è desso». Boccaccio: «Parendomi voi pur desso»]. – Grassi.

1491

Desso, Medesimo, Stesso, Istesso.
Gli è lo stesso, il medesimo, tutt’uno, Tanto fa.

Medesimo da idem [Altri ci sente l’ipsemet]; stesso da iste ipse. L’uno dice identità; l’altro, o con più forza dice l’idea d’identità; ovvero, senza direttamente fermarsi sopra questa idea, tende a indirizzare con più intensione il pensiero a un oggetto.
Nel primo senso distingueremo così: Galileo nacque nel medesimo giorno che morì Michelangelo, e questa stessa Firenze d’entrambe le glorie si vanta. A questo modo sarà meglio detto, parmi, che: stesso giorno, e: Firenze medesima. Perché stesso calca più fortemente l’idea [Boccaccio: «In questa medesima sentenza, parlando, pervenne». Dante: «E risolversi a me come davanti Essi medesmi che m’avean pregato».
Petrarca: «Esce D’un medesimo fonte Eufrate e Tigri». Redi: «Le vipere lionesi sieno le stesse stessissime che le italiane». Non sono le medesime, ma hanno le medesime qualità. Dante: «Si come ’l sol che si cela egli stesso Per troppa luce». (Del sole: egli medesimo, parrebbe che lo dicesse un notaro o un deputato). Cavalca: «Perché mi lodi tu a me stesso?». Passavanti: «Per esser tenuti umili, egli stessi si biasimano»]
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Questa distinzione non è sempre osservata; ma osservarla parmi che gioverebbe. Certo è che quand’io dico che un filologo non filosofo è la stessa noia in persona, non potrei dire: la medesima noia [Redi: «Nel fior di giovinezza Parrai Venere stessissima». Vedi le vipere sopraccitate]. E così stessissimo ben più sovente che medesimissimo. E: qui stesso, piuttosto che: qui medesimo, e: ieri, oggi stesso. E: uomo tutto di sé stesso; non mai: di sé medesimo [Cavalca: «Troppo amano sé stessi»].
Desso è della lingua scritta. Tanto diciamo, d’uomo che s’è mutato: non più desso; quanto: non è più lo stesso. E s’intende: è il medesimo uomo, ma non ha il cuore, lo stesso umore, la forza che aveva. Lo stesso par che indichi, col non, meno mutazione che desso. Poi, non è lo stesso diciamo anco di cose, e nel neutro e altrimenti; dove l’altro non cade. Dire e fare non è lo stesso; ma più difficile, talvolta, è dire che fare, e in bene e anco in male. Ma quando in atto di riconoscere una persona esclamiamo: gli è desso! mi par desso!, non esclameremmo: è lo stesso! mi pare il medesimo!
Istesso vive in qualche dialetto d’Italia: ma, sebbene rammenti l’iste ipse, e sebben possa talvolta a’ numeri poetici tornare comodo [Alamanni: «Agli altri tini,... Non men cura convien che a quelle istesse». Tasso, Aminta: «Pur di colei che nell’istessa rete»]; saprà lo scrittore valente non ne sentire il bisogno, e fornire ai meno esperti l’esempio che sfrondino dalla lingua tante superfluità, che sono nocive non foss’altro perché pesanti e sterili, e pretesto ai pedanti di palliare colla varietà delle forme la vacuità delle idee.
Per denotare che tra due locuzioni, proposizioni, idee, fatti, non corre differenza logica o morale o altra, o poca ne corre; e che dall’una all’altra importa a noi poco, diciamo è lo stesso. Gli è il medesimo, appunto perché più determinato, avrebbe qui meno convenienza. Ma tutt’uno direbbe ancora più che il medesimo, il quale in tali casi suona più forte del quasi approssimativo o noncurante lo stesso.
È lo stesso direbbesi anco del senso di due parole, della somiglianza di due oggetti; tanto fa riguarda proprio le azioni o l’efficacia d’una causa. V’è della gente che per non condiscendere agli altrui desiderii, piuttosto che andare innanzi, s’affannano a andar come i gamberi; ma posto che una fatica debbon farla, tanto fa camminare come vuole natura [Galileo: «Per conseguire il medesimo effetto, tanto fa se la sola terra si muova»].
Tanto fa è pure ellissi. S’ha egli a cominciare a farci migliori di qui a dieci anni, o domani? Cominciamo subito. Tanto fa.

1492

Questo, Cotesto, Quello.

Questo denota la cosa presente e prossima a chi parla, o così viva nel suo pensiero, così prossima nel suo discorso, che egli l’ha per presente. S’io parlo del cappello ch’ho in capo, dirò: questo. Cotesto significa la cosa presente o vicina a quello al quale si parla, alla cosa ch’è di lui, o è in lui. Volendo accennare il cappello di colui a chi io parlo, dirò: cotesto. Quello denota oggetto non tanto prossimo, o non considerato come prossimo, né a me, né a colui al quale io rivolgo il discorso; oggetto di cui l’imagine non è così immediata come se presente fosse. Dammi cotesto libro, e tu pigliati questo; e se questo non basta, io ti darò tutti quelli ch’ho in casa. – Ambrosoli.
Quando non si parli direttamente a nessuno, non si accenni cosa che si debba imaginare collocata in un luogo, allora qual differenza tra questo e cotesto? L’analogia ce la insegna. S’io parlo di cosa prossima a me, di cosa che io voglio far riguardare come prossima, questo è il più proprio. Quando si riguarda la cosa quasi lontana di tempo e di spazio, quando si tratta d’idea, obbiezione, espressione altrui, cotesto ci cade. Diremo dunque, dopo esposto un principio: questo principio, svolto che fosse, darebbe assai più conseguenze che l’imaginazione adesso non possa numerare. E diremo: cotesta vostra obbiezione distruggerebbe, se vera fosse, tali o tali verità di prima evidenza [Usasi e codesto e cotesto, per quello scambio delle due lettere che non è nell’italiano soltanto. Ma gioverebbe attenersi a una forma; e la più regolare parrebbe cotesto].
Ma siccome ai latini iste aveva talvolta senso prossimo a hic; così cotesto, i Toscani usano accennando a cosa non lontana da sé, né concernente la persona a cui parlano: e ciò con tanto più di ragione che questo viene da iste. Sempre, peraltro, cotesto dice cosa o realmente o idealmente alquanto men prossima: potrebbesi soggiungere, e moralmente, per rammentare i casi dove cotesto, sul fare di costui, suona spregio o noncuranza.
Il sentimento, non la grammatica, è che dà norma a tali varietà. D’un libro ch’io ho nelle mani, o ch’io intenda sbertarlo o ch’io pensi a chi me l’ha dato, potrò talvolta dire cotesto: del libro ch’altri tiene in sua mano, anche senza toccarlo io con la mia, appressandomi più col pensiero che con la persona, potrò dire questo.

1493

Gli, Li.

In un’assai buona grammatica italiana-francese del secolo di Luigi XIV, lavoro di Lorenzo Ferretti, dedicato a una signora de la Villemabont, bella e ingegnosa al solito (della quale è detto: «les dames de la cour de Rome ou de celle de Florence, auraient un dépit extréme de vous entendre parler leur langue maternelle si correctement et avec tant de mignardise, qu’on les prendrait pour des barbares si elles osaient ouvrir la bouche auprès de vous...»), nella grammatica del Ferretti è data una distinzione tra mostrarteli e mostrargliti, il primo de’ quali, dic’egli, vale: mostrarli a te, l’altro: mostrarti a loro od a lui. Sebbene l’uso in cotesto non sia costante, è costante in questo che gli si serba, d’ordinario, al singolare dativo; li, all’accusativo plurale. Darmegli, dar me a lui; darmeli, darli a me. Che sebbene, talvolta, scriviamo li per a lui, e gli per li, essi, quest’uso è più letterario e antiquato, che comune e vivente. Vediamo di smettere.

1494

Il, I, La, Le.

Secondo che io dico i poeti, il poeta, varia, se non il senso della proposizione, la forza di quella. Il dice astrazione assoluta, la totalità dell’idea collettiva senza restrizione nessuna: cosa convenientemente espressa dal singolare, il qual dice unità. Il plurale è più proprio a denotare generalità quasi approssimativa, la regola soggetta a eccezioni, non la legge immutabile [Un modo veramente curioso d’alcuni scrittori è quello di appiccicare la desinenza del plurale a nomi de’ grandi uomini: così un letterato si fa diventare un’accademia, e molti insieme ti fanno come un’oste poderosa. Ma questo modo ritiene pur sempre del dozzinale. I Danti, i Galilei, non si disse che io sappia mai. I Bruti e i Camilli, col farsi plurali non so che abbiano guadagnato. Capponi].
Il è più proprio laddove la qualità, che dalla proposizione è indicata, è proprietà; i, laddove la qualità è contingente, e attributo. Diremo: l’uomo è ragionevole, perché questa è proprietà che distingue l’uomo dal bruto; che appartiene agli uomini tutti. Diremo: gli uomini sono più deboli che malvagi, perché questo giudizio non cade sugli uomini tutti quanti. Così: la donna è una creatura debole, perché tutte le donne son tali, e più quelle che vogliono parere più forti. Ma io non direi del pari: la donna è volubile, perché non credo la volubilità propria della donna, come la debolezza. Lascerei dire: le donne son volubili, la qual sentenza ha eccezioni innumerabili, grazie a Dio.

1495

Il grande Alessandro, Alessandro il grande.

Posponendo l’articolo al sostantivo, io distinguo la persona con una specie di titolo: preponendolo, non fo che attribuirle una qualità. Alessandro il grande non è che un solo, il Macedone; io posso chiamare il grande Alessandro qualunque Alessandro mi piaccia di chiamar grande, o sul serio, o per celia, o per ironia, foss’anco Alessandro di Fera, fosse l’imperator delle Russie.
Così quand’io dico Carlo il Semplice, intendo quel re di Francia ch’ebbe dai posteri questo nome; Carlo I, Carlo X, potrebbero essere il semplice Carlo, e ogni Carlo che non sia re.

1496

Il meglio, Meglio.

Meglio che io saprò, il meglio possibile; così, d’ordinario, si accoppiano le due locuzioni. Ben direbbesi anco: il meglio che tu saprai; ma non mai: meglio possibile, senza l’articolo. Quando la proposizione è assoluta, l’il ci cadrà. Per esempio: adopratevi in tutte le cose il meglio che potete; e certo sarete virtuoso e benemerito, e grande ancora. Quando il componimento della proposizione dipenda da un inciso seguente, l’il non regge. Per esempio: meglio che voi difenderete i diritti altrui, e più saranno rispettati e durevoli i vostri. In questo luogo nessuno direbbe: il meglio [Ma qui più spedito sarebbe e però più elegante: meglio voi difenderete... e più... Senonché, e nell’una e nell’altra forma meglio preponesi al verbo. Voi difenderete meglio, avrebbe altro senso]. Nel primo si può anco senza l’il; ma è meno elegante e meno evidente; e forse perché meno evidente, però meno elegante; giacché l’eleganza ha sempre una ragione di sé.

1497

Il, In.
In, Con.

Pallida il viso, scomposta i capelli, e siffatti modi, segnatamente il linguaggio poetico, li ama. Potrebbesi: pallida in viso, non, sciolta ne’ capelli, o altro simile. E però la prosa può talvolta ammettere questo gentile grecismo [Virgilio: «Nodoque sinus collecta fluentes». Manzoni: «Rorida di morte il bianco aspetto], ch’è pur dell’uso toscano; nel quale si può sentir tutto giorno: era pieno le tasche, per dire, aveva le... Gli è famigliare segnatamente al dialetto aretino. Né sempre può con grazia volgersi altrimenti la frase, e invece di sciolta i capelli, lacerata le vesti, dire: co’ capelli sciolti, con le vesti lacerate. E questo direbbe altra cosa, sarebbe riguardare la circostanza di cui si tratta, come meno importante. Smorto il viso, o smorto in viso, mette quest’immagine in rilievo; col viso smorto, ci lascia passar come sopra per riguardare più direttamente quello che la persona fa o dice. L’in sta tra il col e l’il; più efficace dei primo, ma cede al secondo.


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