9 Dicembre 1997    scrivimi@mauriziopistone.it    strenua nos exercet inertia    Hor.

Lingua e dialetto

I cosiddetti dialetti «galloitalici» sono dialetti italiani?

Calogero Cannarozzo ha trovato su un sito dedicato alla linguistica, http://www.sil.org/ethnologue/, una strana valutazione, che limita a circa 40 milioni il numero dei parlanti l’italiano; in quanto, secondo la sign. Barbara Fornasero Grimes «Ethnologue Editor» di quel sito, alcuni dialetti, come il piemontese e il lombardo, sono classificati come «separate entries» e non come dialetti dell’italiano.

Su questo è nata una vivace discussione, che ha puntato sulla definizione, usuale in linguistica, dei dialetti nord-occidentali come «galloitalici» riporto l’intervento particolarmente interessante di Riccardo Venturi

1a considerazione: i dialetti «galloitalici». Tali dialetti sono stati così in quanto compartecipi di alcuni tratti principalmente fonetici dei parlari francesi (il prefisso «gallo-» significa qui «francese», non «gallico», quindi eliminiamo una buona volta allobrogi, Vercingetorige e tutti i celti di bossiana memoria). Tali tratti sono principalmente:

  1. la presenza delle vocali cosiddette «procheile» (cioè «arrotondate»), vale a dire [ ö ] e [ ü ];
  2. la presenza (non sempre) della vocale indistinta [ ë ] in posizione finale;
  3. La palatalizzazione o spirantizzazione (non sempre) della gutturale sorda latina [ k ] (come cattus > francese chat]
  4. La riduzione della [ a ] latina tonica a [ e ], visibile particolarmente negli infiniti dei verbi della 1a coniugazione (fenomeno limitato al piemontese ed al lombardo; ad esempio non è presente in ligure). Alcuni di tali fenomeni, in ordine sparso, si presentano tra l’altro anche in diversi dialetti italiani meridionali: le vocali procheile in tursitano (provincia di Matera), la finale indistinta in tutti i dialetti pugliesi.

Tra i fenomeni morfologici tipici dei dialetti galloitalici, l’unico che può essere ricondotto alla situazione d’oltralpe è forse la progressiva eliminazione del passato remoto (scomparso però completamente anche in Sardegna ed in Romania.... dialetti «gallosardi» o «gallorumeni»???).

L’errore di fondo è quindi quello di basarsi su alcune concordanze fonetiche (e/o raramente morfologiche) per operare una distinzione che non regge ad un’analisi approfondita. La distinzione tra due sistemi linguistici (in questo caso, in senso lato, «francese» e «italiano») non può essere affidata a sporadiche concordanze di tale tipo, né tanto meno al lessico (ovvio che in piemontese abbondino i termini di origine francese, così come il maltese non cessa di essere un dialetto arabo magrebino seppure infarcito di parole italiane e siciliane... e l’inglese cos’è allora, un dialetto francese??). La distinzione è affidata ai fatti morfosintattici principali: ad esempio, uno dei più importanti è la formazione del plurale. Nel sistema linguistico francese si è evoluto il plurale derivato dall’accusativo latino in -S (come in spagnolo, in portoghese ed in sardo), mentre l’italiano continua il nominativo plurale in -I (come in rumeno e nell’estinto dalmatico: ed il sistema linguistico italiano appartiene qui alla cosiddetta «Latinità orientale»... ohi, ohi, cara signora... invece di andare in Scozia qui ci ritroviamo dritti dritti nei Balcani...). Orbene. Nei dialetti galloitalici, il fenomeno della metafonesi (scomparsa della terminazione -I che ha però causato un fenomeno di assimilazione regressiva ed arrotondamento sulla vocale tonica, esempio: Italiano nodo > plur. nod-i; milanese nod > plurale nöd < nod-i) ha sì oscurato la terminazione tipica, ma dal punto di vista storico ciò rientra nel sistema linguistico italiano, non in quello francese. Un’ultima cosa: negli ultimi tempi la denominazione di dialetti «galloitalici» viene abbandonata per una più esatta definizione di «dialetti italiani settentrionali».... ed il veneziano dove non esiste neanche la metafonesi, ma dove sono invece presenti in abbondanza fenomeni di lenizione consonantica tipici anche del campano e del molisano, cos’è? un dialetto calabrese?).

2a considerazione: i dialetti italiani stanno progressivamente perdendo i loro tratti più distintivi. Se leggiamo un testo genovese del passato, ci accorgiamo di quanto il genovese di oggi si sia evoluto verso l’italiano regionale ligure (e parlo di uno dei dialetti cittadini più particolari d’Italia). Nel suo Dizionario Genovese, Alfredo Gismondi riporta continuamente antichi termini caduti in disuso, oramai sostituiti da vocaboli italiani solo leggermente rivestiti di una patina genovese. Non ha senso rinchiudere i dialetti italiani di oggi in «scatoloni» che potevano essere validi in passato, ma che non lo sono più. Il «lombardo», il «piemontese», il «ligure» esistono solo come sottosistemi all’interno del sistema italiano, e per di più presentano al loro interno una differenziazione notevole.

3a considerazione: L’italiano «seconda lingua» di lombardi, piemontesi ecc.?? Vogliamo tornare allo stadio del «buon selvaggio» di rousseauiana memoria, per cui la «prima lingua» è quella che si parla in casa e nelle relazioni affettive? Mi sembra che in questa visione, che definisco decisamente reazionaria, entri molto il mito della «sana provincia» in contrapposizione alla «corrotta città» (insomma, un bel fenomeno di Strapaese....). La prima lingua è quella che una persona usa nella vita sociale (altrimenti, ad esempio, negli USA l’inglese sarebbe oramai in minoranza nei confronti dello spagnolo, dell’italiano, del russo...). Nella vita affettiva non entra tanto la distinzione tra «prima» e «seconda» lingua, quanto una questione di registri linguistici, con i conseguenti fenomeni di commistione, idiolessia ecc... il dialetto è quasi sempre, attualmente, un registro linguistico di ambito familiare ed affettivo, escluso quindi dalla vita culturale, produttiva ecc. dovremmo quindi parlare di registri linguistici paralleli all’interno di un sistema (italiano, russo, birmano...)


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