INNO A TORINOI[INVOCAZIONE E PROTASI]Toro divino ch’oltra due fiumanegiaci e, fiso nel gran murmure, guardi l’Eridano, che passa e che rimane: macro pascesti sotto i baluardi | |
donde, i Titani si sporgean, le spine | 5 |
dei rovi, un tempo, ed il salistio e i cardi! Ti distendevi immenso sul confine delle montagne, nella notte, attento tra il fioccar bianco e le tormente alpine; | |
facesti il nerbo di cento anni in cento, | 10 |
solo e rubesto, caute le pupille, sbalzando al piano, corneggiando al vento. Amavi l’ombra, amavi le tranquille acque e verzure; eppure avesti in sorte | |
la guerra eterna, dai mille anni ai mille. | 15 |
Passavi i fiumi baldo allora e forte, cedevi passo passo, e insanguinato col dosso all’Alpi combattevi a morte. Da due nemici preso a volte in guato, | |
di qua di là, volgevi tu d’un salto | 20 |
a questo e quello il fiero capo armato. Alfine come statua di basalto tu ti piantasti quadro sulle sponde Ticine, or pronto a rintuzzar l’assalto, | |
or volto verso il piano, oltre quell’onde, | 25 |
verde, ove il tuo nemico, il tuo rivale, erbe non sue pasceva e non sue fronde: il collo in arco, a fronte bassa) male pensando, e il sí nel fiero cuore e il no... | |
finché mugliasti, rauco, trionfale, | 30 |
lungo; e l’Italia tutta ne sonò. II[LA MIGRAZIONE DEI TAURINI]Quale eri tu? Non l’ITALO tu forseche per la grande terra della sera trasse un fatale popolo, e la corse | |
tutta col nome che tuttor non era? | 35 |
Fuggíano, andando, le paludi oscure tinte d’un lividore di tramonti; fuggían le macchie vergini di scure e il fuoco acceso notte e di sui monti. | |
Sospesi, se temere, se sperare, | 40 |
tendean l’orecchio ad altri gridi umani; ma non s’udiva che scrosciare il mare e rintronare lava di vulcani. Emergeano cavalli-d’-acqua a torme, | |
spruzzando pioggia dalle froge grosse. | 45 |
Volgeano i piccoli occhi e il muso enorme, chiedendo a sé, quella tribú, che fosse. Fendeva i boschi un calpestio selvaggio ed un fragor di grandi alberi infranti. | |
Pareva un cieco nembo; era il passaggio, | 50 |
là, di rinoceronti e d’elefanti. E quando a notte era sparita, avvolta d’aride foglie la raminga gente, a prender sonno, tutta notte in volta | |
andava l’ombra del leon ruggente. | 55 |
Ma sempre tu, senza guardarti attorno, guidavi, o Toro, i tuoi Taurini erranti, allor che i piè, sempre piú lenti, un giorno fermasti. T’era una palude avanti: | |
una palude gialla che tra l’ulva | 60 |
lasciava sette cime già scoperte di colli. La rapace aquila fulva gridava all’acqua che stagnava inerte. Ma nubi nere e sfavillío di lava | |
uscian di notte dalle vette nude | 65 |
dei monti, intorno, e sempre sussultava la terra e balenava la palude. Era lontana l’augurale aurora, che s’aspettava. E tu, col tuo profondo | |
muglio, colei ch’era nascosta ancora | 70 |
dall’acqua ed alga, la chiamavi al mondo. Dopo gran tempo era per balzar fuori Roma, nei dí che da te spunta il sole, Toro che spargi sulla terra i fiori | |
e in ciel t’impenni tra le stelle sole. | 75 |
Roma era allora cinta dalla dia vigile Terra. Tardo, a poco a poco, continuasti, o Toro, la tua via, volgendo al tuono il capo, spesso, e al fuoco. | |
Tutta cosí la terra senza nome | 80 |
varcasti lungo il risonante mare passando fiumi e valli oscure; e come fosti alla fine del fatale andare, la Primavera Sacra che dai solchi | |
natii fu data ai venti e alle venture, | 85 |
il tuo ramingo popolo, i bifolchi, ITALO, tuoi, levando l’aste pure, dissero: Italia! Vollero che il breve lido del mare fosse Italia, fosse | |
di te. L’Etna alitava, tra la neve, | 90 |
nuvole, ver’ la verde Italia, rosse. Poi dove il Sole ha i pascoli, tu insieme ai tuoi Taurisci a nuoto un dí passavi. Ma sopravenne dalle prode estreme | |
l’Eroe piú dio che gl’Immortali ignavi. | 95 |
«Indietro» disse, e tese l’arco. Indietro volgesti allor, parando le tue torme, girando spesso attorno gli occhi tetro ponendo i piedi sulle tue grandi orme. | |
Passando, quella ch’era un dí palude, | 100 |
vedesti arare e seminar già doma. Era un pastore dalle membra nude che seminava l’avvenir di Roma. Aveva atteso te, la primavera | |
tua, la tua stella. Anche di lí cacciato, | 105 |
spingevi innanzi la tribú tua fiera, volgendo il capo, ed obbedendo al fato. T’era alle spalle, simigliante a notte oscura, te seguendo sempre al varco, | |
una grande ombra in mezzo a nubi rotte, | 110 |
l’ombra di lui, con nudo e teso l’arco. Ma tu posasti, dove due fiumane angolo fanno, certo del destino. Si sparse intorno per capanne e tane | |
il tuo tenace popolo Taurino. | 115 |
Appiè dell’Alpi t’accostasti come sopra una soglia. Il tuo viaggio vano pensavi e il lido cui tu desti il nome, e l’avvenire, grande, alto, lontano. III[LA PROFEZIA] | |
Itale vergini, Alpi dal bel velo | 120 |
bianco, tendenti all’alto, che la veste lasciate lungi dagli sguardi impuri, la veste, sí di prati e di foreste cader lasciate, ma soltanto in cielo: | |
di quali voci allora e qual concerto | 125 |
empian le Madri i neri boschi cupi! quali lontani portentosi auguri gemean negli antri, o dritte sulle rupi gridavan alto tra la neve e il vento! | |
Un re verrà (fermo è nel fato e fisso) | 130 |
dalla sventura. Caccerà camosci per l’Alpi sue. Sempre nel cuore il fischio avrà dei venti, sempre avrà gli scrosci delle valanghe e l’anelante abisso. | |
Il re vedrà, tra tra nubi grigie e meste, | 135 |
un segno bianco e snuderà la spada. Il re porrà tutto sé stesso al rischio per liberare tutta la contrada, alzando al cielo il suo segno celeste. | |
Il re trarrà dalle grandi Alpi al piano | 140 |
di nuovo il Toro; dal suo doppio fiume, lungo la terra della stella, al mare; a riveder la prima Italia al lume del pino acceso dal suo gran vulcano. | |
Questi, quel Donno, il Regolo fatale. | 145 |
Gl’Itali udrà gridare di dolore. Gl’Itali lo vedranno cavalcare con l’asta lunga. O Roma, egli, vittore, dell’elmo ferreo t’armerà, che ha l’ale. | |
Cosí le madri predicean nel santo | 150 |
orror dei boschi, ed ora al sacro fonte sotterra dell’Eridano. E, pur bassa fosse la voce, trascorrea dal monte Vesulo sino al mare Adriaco il canto. | |
Via via le ripe faceano eco; e in doppi | 155 |
lunghi filari le sorelle fise a rimirar l’acqua ch’eterna passa, tutte, in udir, crollavano improvvise le loro chiome tremule di pioppi. | |
Abbrividiano come per un blando | 160 |
soffio di venti. Un dolce suono usciva dalle lor foglie ov’era un usignolo. Cosí lunghesso la lunata riva pareano andare in compagnia, cantando. | |
Faceano un solo inno d’amore i puri | 165 |
virginei canti. E tu, come una nave bianca dall’acqua fluttuando a volo, cantavi ancor piú forte e piú soave le morti, o cigno, degli eroi futuri. | |
Gli eroi nel bosco del perenne alloro | 170 |
erano insieme assisi al sacro fonte dell’Eridano, e tutti, redimita già delle vitte candide la fronte, diceano l’inno della gloria in coro. | |
Anime pure, anime senza sangue | 175 |
erano ancora, ancor sul limitare; che alfin trovato il lume della vita, alla lor Patria dar la vita, dare tutto voleano alla lor Patria il sangue. IV[ANNIBALE] | |
Taurina gente, sacra sin dagli anni | 180 |
primi all’Italia, o fuochi accesi in vetta delle bianche Alpi, o saldi cuori e forti, o guardie eterne poste a vigilare l’estrema, immensa, ardua trincèa di Roma! | |
L’avea, la forza del maggior nemico, | 185 |
varcata già la cerchia di granito, le avea forzate l’ultime muraglie sacre d’Italia e della sacra Roma. Veniva già col vento e la tempesta, | |
invisibile in mezzo alla tormenta. | 190 |
Sul capo suo cadeva franto il cielo che nascondea nel polverío le turbe. Per cime e valli andava, e il suo cammino dalle macerie era, del cielo, ingombro. | |
Ma egli andava, come in un gran sogno, | 195 |
sempre, non mai volgendo gli occhi, avanti. Intorno a lui sonava il faticoso nitrito de’ cavalli, a cui le sabbie, auree nel caldo anelito del sole, | |
rideano al cuore; avvezze a pascolare | 200 |
sotto le palme, le turrite mandre barcollanti incedean degli elefanti. Alle sue spalle, un fragor grande, crolli, | |
fuga, tumulto, e scrosci di foreste | |
schiantate e grosso crepitar di fiamme. | 205 |
Era un serpente enorme che con torve spire seguiva, e i culti campi larga- mente prostrava e sradicava i boschi e con la coda distruggea le intere | |
città; che tutto con la bocca ardente | 210 |
dava alle fiamme, insieme, ed alla morte. Era la vïolenta idra straniera, la sventura d’Italia, che d’allora avrebbe osato rompere i confini | |
sacri in eterno, e sulla devastata | 215 |
terra l’immane corpo arrotolare e covar sopra ceneri di messi e sopra roghi di città distrutte. Allora in prima il mal serpente infranse, | |
per farsi via, le rupi ond’è costrutto, | 220 |
insino al cielo, il Termine d’Italia; Termine immenso che da mare a mare, col fondamento nel lor fondo, incurva sé stesso e sembra a Dio caduto un arco. | |
Allora in prima con le spade in mano | 225 |
guizzanti, voi sbalzaste su, Taurini, e sulla soglia della patria terra gettaste il sangue, sin d’allor col sangue segnando il patto con il vostro fato. [IULIA AUGUSTA TARINORUM] | |
Ma voi vedeste chi, le italiche Alpi, | 230 |
da questa Italia le ascendea Romano; ma voi vedeste poi le italiche armi oltre i confini propagar la pace del giusto Lazio. In mezzo a voi, Taurini, | |
come nel marmo in cui la vita scorra, | 235 |
Cesare apparve. Nel paludamento imperïale ei conducea l’Alauda fulva le chiome: intorno a lui le scuri nei fasci, e i pili della sua coorte. | |
Oppur liete parole egli intrecciava | 240 |
coi fidi amici, o nella molle cera solchi imprimea col vomere, gittando in quella il seme del suo gran pensiero. Ora i fasti romani, ora le guerre | |
per terra e mare, e il mondo vinto, e, in mezzo | 245 |
ai suoi trionfi e alla sua pace, Roma; or meditava arguti versi e dolci esili carmi, e si beava il cuore. Qui mentre un dí cadea la neve a fiocchi, | |
dicono, entrò nella capanna trista | 250 |
d’un re selvaggio. Largo il re, di latte giovò gl’ignoti, e loro appose i frusti d’uno stambecco. E la coorte in tanto motti avventava contro il re dei monti, | |
gran cacciatore, e l’un mostrava all’altro | 255 |
quel re seduto sulla panca al fuoco, rugoso in fronte ed accigliato. Ed uno disse: «E’ mi pare il dio Cernunno, il dio della ricchezza, con le corna in capo». | |
Cesare, grave, disse allora: «Io primo | 260 |
sia qui piuttosto che secondo in Roma!» Regolo alpino, tu balzasti allora, a un tratto, su, dalla massiccia panca. Di nera luce ardevano al Romano | |
gli occhi mortali; dalle tue pupille, | 265 |
splendeano ignude due cerulee spade. Nel focolare arse piú chiaro il fuoco, vampeggiò, crepitò, fece faville. E per le forre, con un’eco arcana | |
dell’infinito, a lungo mugliò una | 270 |
raffica, come se parlasse il Tempo. Allora avanti Cesare quel Gallo, irto di peli il labbro, stette, e parve grande del pari, ed esclamò: «L’augurio | |
accetto. Viva io qui tranquillo e pago | 275 |
di questo regno povero, cacciando i cervi, errando pei selvaggi monti, fin ch’io non possa essere il primo in Roma!» Risero tutti, sí, ma la lontana | |
posterità ventò sulla coorte | 280 |
quasi alitando i secoli futuri. Cesare quindi una città di guerra fece ai Taurini, e la muní di vallo, e di due torri ornò le porte, e, cauto | |
dell’avvenire, i veterani astati | 285 |
pose in questo romano accampamento, forti coi forti. E la quadrangolare città nel suolo si piantò, sicura per le sue pietre e piú per i suoi cuori. | |
A destra poi, per una grande porta, | 290 |
badava ad ogni voce, ad ogni suono, se udisse mai venire le coorti, se un clangor, lungi, si levasse al vento, frangesse il vento uno squillar di trombe, | |
la via strepesse al duro cuoio e ai chiodi | 295 |
della legione, e Roma ritornasse: e se, di tra gli stípiti rimasti l’eterna fuga a contemplar degli anni, s’avesse alfine a ritornare a Roma. | |
Fuggiva il tempo, e l’acqua dei due fiumi | 300 |
fuggiva anch’ella, in grande oblio di tutto. Dalle sue porte la città spiava i quattro venti, rivolgendo a un tratto l’attento orecchio ognor dall’Alpi a Roma. [LA CROCE DI COSTANTINO] | |
Ecco luccicar d’armi ampio e di schiere. | 305 |
Ferro era tutto, che copria cavalli e cavalieri, e tutto il piano era aspro come di fulva ruggine di ferro. Romani voi? Partiti sí da Roma, | |
ma non Romani. Dove i pili e i valli? | 310 |
Che v’appiattate sotto il fosco ferro? Ed altre schiere ecco venir dall’Alpi traboccando dall’alto arco dell’ampia porta d’Italia. Per il ciel sereno | |
in faccia ad essi era una bianca croce. | 315 |
Stupore ebbe le genti, e il condottiere Prendi l’insegna della tua vittoria! udí. Vinsero in vero, e le lor brevi spade la via trovarono del sangue | |
sotto le squamme. In mezzo al vostro cielo | 320 |
restò, Taurini, quella bianca croce, ora lucente nell’azzurro, ed ora scialba, e da un triste nimbo incoronata; finché quel segno fu dalla vittoria | |
ripreso in mano, quando, o Italia, forte | 325 |
martire, Italia, delle genti, orlavi, recando in alto la tua verde palma, la veste bianca di purpureo sangue. [LA CORONA D’ITALIA]E Roma intanto dalle sette cime | |
era crollata, e dell’Esperia guasta | 330 |
da ferro e fuoco, nulla piú che l’ombra era, del nome. E tempo corse, e il nome anche svaní o come in un rogo immenso ultima brilla e muore una favilla. | |
Duca era allora dei Taurini un uomo | 335 |
di quei barbati, che nemici a Roma avea la biondeggiante Elba mandati. Il duca era partito per le liete nozze del re, per le fiorenti mense. | |
Appena giunto era nell’aula: un tuono | 340 |
rimbombò, subito, ed un lampo insieme illuminò per l’aula le criniere fulve e le barbe e le dense aste e l’azze razzanti, e il re. Li scosse e impietrò tutti, | |
ed il palagio con un lungo rombo | 345 |
scrollò. Del re breve la vita e il regno! Duca Agilulf, diremo noi tra breve te re. Queste Parole e’ le nascose nel cuore, il duca, e ne ronzava il cuore | |
profondo. Ma non volsero molti anni: | 350 |
furono vere. Né, concordi, a grida sonore i duchi porsero a lui l’asta, a lui dicendo di regnar su loro; ma la regina fu che il regno e un colmo | |
calice, prima a fior di labbro attinto, | 355 |
offerse a lui di rosso italo puro vino, e gli disse: «Generose genti come codesto vino vendemmiato, Re Agilulf, su colli che il sole ama, | |
tu reggerai; ma l’arte dell’impero | 360 |
è presso loro, e tu da lor l’apprendi». Fecero quindi un tempio. Era, sull’alba dei secoli, uno errante nel deserto. «Fate le vie» gridava, «e le spargete | |
di palme: l’aspettato è per venire!» | 365 |
Fecero a lui di marmo un tempio, e dono posero in esso una corona d’oro fulgida, cui cingesse l’aspettato, il re d’Italia ch’era omai per via. | |
Ma l’oro puro intorno inanellato | 370 |
era di ferro, che già ferreo chiodo fu della croce. Oh! come tutto è vero Ma lo vedranno i secoli lontani. Vero! Alla croce sarà reso il chiodo! | |
Vero! Al sovrano de’ Taurini resa | 375 |
sarà l’aurea corona. Egli su tutta l’Italia re dominerà. L’Italia renderà questi agli Itali e al destino. Ma dopo lunghi secoli con molto | |
purpureo sangue, ma con fuoco e ferro! | 380 |
[IL DUCA FERREO]Allor col ferro impresero i Taurinia perigliar la cara vita, e sempre alla futura patria addimostrarsi, in disventura ed in povertà, forti. | |
E si pareano immemori del fato | 385 |
e pur del nome e dei costumi antichi e del linguaggio che fu già di Roma. Né piú le genti capo avean: l’augusta città fatta straniera: e valli e monti | |
dell’armi ostili eran per tutto ingombri.. | 390 |
E tramontata era la sacra insegna, né v’era alcuno che levarla al cielo potesse ancora: Donno era lontano; esilïato Donno era dalle Alpi. | |
Presso i due fiumi, come corpo morto, | 395 |
come travolto da una gran valanga, Toro progenitore, eri prostrato: quando, Testa di ferro, tutto ferro, alto levando, come alfieri la spada, | |
puntando ai fianchi del destrier gli sproni, | 400 |
egli tornò. Tornava dall’esilio: dalla vittoria. E il popolo Taurino gridò: «Già viene! Ecco il signor con noi! Vero il tuo nome dice Emanuele!» | |
Egli ristette e il suo cavallo immane | 405 |
fermò, trasse le redini, e nascose nella guaina la sua grande spada. [IL RISORGIMENTO]Non fosti tu, tu stesso, che, tre voltevolti cent’anni, la levasti al sole? | |
Grida di morte, grida di dolore, | 410 |
in ogni tempo, d’ogni parte, al cuore giungeano ardenti. Quel rapace drago strisciava per la terra della sera, tutto abbattendo, e il popolo le ingiuste | |
verghe provava e le superbe scuri | 415 |
dei re tiranni. Sí, ma tu le udisti quelle infinite grida di dolore, la grande spada tu, d’un dí, snudasti, la croce bianca tu, d’un dí, levasti. | |
Oltra Ticino, sommovesti all’armi | 420 |
tutte le genti e le guidasti a guerra ch’è santa e pia, se libera e redime. Poi col tuo nome mille eroi due navi salgono, e vanno all’isola che porta | |
chiare di dei, di semidei, le tracce. | 425 |
Rossa la veste dei remigatori divini; capo era il divino Ulisse. E tu combatti ancora e sempre. Alfine re dell’Italia tutta imponi al capo | |
il ferro e l’oro della sua corona. | 430 |
La croce alfine segno di vittoria, splende dal cielo sulla terra verde ch’ha neve al sommo e che nel fondo ha fuoco. Ed a nessuno e in nulla mai secondo, | |
piccolo alpino re selvaggio, a Roma | 435 |
stai grande, e resti eternamente a Roma.
V[IULIA AUGUSTA TAURINORUM]Accampamento fatto a piè del montegià dal grifagno Cesare ai futuri figli d’Italia, o tempio dei vessilli, | |
o ara donde il Console gli augúri | 440 |
prendeva, augusti, col nemico a fronte! Per guerre, qui di secoli lontani, erano poste le aquile dell’oro; qui ripetea la búccina i suoi squilli | |
brevi che un coro ricevea canoro | 445 |
di trombe e il busso dei timpani vani. Qui sempre il suolo trito di stridenti plaustri, qui di concordi ferree peste. Erano le coorti e le legioni. | |
Qui si guardava la purpurea veste | 450 |
da dar, sull’alba della pugna, ai venti. Qui sempre avvenne di mirar le squadre dei fluttuanti veliti e il tumulto delle torme dai quadruplici tuoni; | |
qui sempre alcun triario, come sculto, | 455 |
star tra’ novelli: Narra dunque, o padre! Perché accampato in questo accampamento era un ultimo esercito romano. La sua milizia era infinita e dura. | |
Esso tra il monte s’attendeva e il piano, | 460 |
fedele ad un antico giuramento. Scorsero gli anni e i secoli. Ed armato esso aspettava di ritornar, quando fosse chiamato, sotto quelle mura. | |
Aspettò qui per secoli, il comando, | 465 |
ma Roma ve l’avea dimenticato. Bianchi frattanto, sotto il muschio e i pruni, marmi e colonne e lapidi, grandi orme della gran madre, archi e sepolcri infranti, | |
vedeano intorno e dure austere forme, | 470 |
stele di primipili e di tribuni. Vedean già rotti ancor salire al monte archi che l’acque conduceano al basso. Parean lontane file di giganti, | |
d’ardui giganti, i quali passo passo | 475 |
salían con l’urne, un dopo l’altro, al fonte. E custodíano, nel domar la rude terra, l’antica arte e l’antico onore dei forti aratri e delle industri falci. | |
Ondeggia il campo di frumento in fiore, | 480 |
di verdi steli ondeggia la palude! Verdi, i bei campi, verdi, le canore acque, ma piú sorridono i giocondi clivi con l’ampio serpeggiar dei tralci, | |
donde i purpurei calici ed i biondi, | 485 |
che dànno gioia o danno forza al cuore. L’un vino, austero per gli austeri, ed abbia lode dai forti. L’altro poi s’effonde aureo nell’ampio calice iridato | |
col tremolante mormorio dell’onde | 490 |
cui, vasta, succhia, nel tornar, la sabbia. Ma l’uno e l’altro, è bello, tra i nepoti e i dolci amici, nella patria terra, bere in convito parco, ove l’armato | |
deposte l’armi narri della guerra | 495 |
e sciolga, salvo e di sé pago, i voti.VISalve, o città forte di vallo e fosso!salve, o bivacco italico di scelte anime! o campo che non fu mai mosso! | |
o insegne mai dal loro suolo svelte! | 500 |
Te la dea Roma disegnò quadrata, qual essa fu, premendo il solco a fondo, col grande aratro dalla prua ferrata, con cui fendé fecondatrice il mondo. | |
Come legione ferrea che si schiera, | 505 |
con pari file, dritte e quadre, invade il vasto campo; cosí tu, guerriera, con le tue case e con le tue contrade. In te milizia è tutto; anche l’austere | |
voci e parole e l’anime dei tuoi; | 510 |
che, se squilli la tromba del dovere, corrono a morte, umili ed alti eroi. Né, pur sempre crescendo in ogni parte, oblío ti prese del mensor di Roma, | |
o fida al primo cardine, ed all’arte, | 515 |
ubbidiente, dell’antica groma.
[LA CITTÀ OPEROSA]Ma le diritte nuove strade intornoson or tenute da coorti nuove, e un fragor d’armi nuovo, e notte e giorno, | |
l’immenso accampamento empie e sommuove. | 520 |
Sono telai dalle infinite spole, dagli infiniti pettini sonanti; sono gran magli che sulla gran mole del rosso ferro piombano incessanti. | |
Esce il vapor con fischi di tempesta. | 525 |
Ogni metallo intenerisce e strugge. Morsa da mille denti ogni foresta si fende e scinde, e intanto freme e rugge. Fiumi lontani che, da un alto balzo, | |
a valle giú precipitano bianchi | 530 |
di schiuma, un uom divino, nel rimbalzo loro, li prese e li serrò nei fianchi. Cosí cavalli come prima, a schiere ubbidienti, li guidò dall’erte | |
al piano, dando al vento le criniere, | 535 |
spruzzando l’acqua dalle froge aperte. Mentre là stanno tra ghiacciai, tra foci erme, lontani dal rumor del volgo; li chiama un cenno, un lieve urto, e veloci | |
scendono piú del solco della folgore... | 540 |
ove con morsi e redini li frena l’artiere, o caccia con la sferza al segno; l’artier che intento a un canto di sirena doma, con loro, il ferro, il marmo, il legno. | |
Non solo. I chicchi ai bimbi e’ foggia, e, come | 545 |
pegni d’amor, già prima li accarezza; ciò che ti fa non nota sol per nome, ma dolce ancora d’intima dolcezza, [LA GRAN MADRE]ad ogni madre, o città buona, o pia | |
madre su tutte, che con dolce affetto | 550 |
la prole tua, per tanta ch’ella sia, tutta la stringi e te la scaldi al petto. A lei prepari i bei giardini in fiore, le scuole ornate, l’agile palestra: | |
cosí ti muti, non mutando amore, | 555 |
da dolce madre, in dolce e pia maestra. O Iulia Augusta armipotente! In pace non sembri un campo cinto d’armi attorno; un nido sembri, un gran nido loquace | |
di mille cuori salutanti il giorno; | 560 |
schiere bensí, ma parvole, vestite di bianco e rosa, altre e le stesse ogni anno: ne paga tu di tante proprie vite, altre ne cerchi che pur tue saranno. | |
O Grande Madre, hai del tuo grande cuore | 565 |
dato ai fanciulli, dato alle fanciulle, o sotto volte splendide e sonore, o sotto travi di capanne brulle. A tutti, a tutte! Sia dolore o gioia | |
la vita loro, spremi a lor quel pianto | 570 |
che fa non che l’un cresca e l’altra muoia: fa pia la gioia ed il dolor fa santo. Simili quindi, ormai stretti ad un patto, ad una mensa siedono imbandita | |
del pane stesso. O festa del riscatto | 575 |
sul limitar del tempio e della vita! O sacrifizio onde ogni dí t’elevi, Amor, Pietà, Pace albeggiante, a volo! O fiori umani, tremoli di lievi | |
petali, o fiori che ne fate un solo! | 580 |
Viene scorrendo sulle penne, appena battute, viene, lievemente anelo, lo stormo e un inno per la via serena canta, che pare un astro nuovo in cielo... VII | |
E voi cantate ché la madre Italia | 585 |
non altre voci ode al cuor suo piú care cantate dunque: Italia! Italia! Italia! Gracili voci: ma da queste pare balzar l’eco di quelle dei grandi avi: | |
marcie, comandi, cariche, fanfare. | 590 |
Dite, o fanciulli e vergini soavi, l’Italia ch’ora è su lontane sponde: la Patria: itale tende, itale navi. Forse il gabbier ch’esplora ciò che asconde | |
la notte e il flutto, in mezzo al ciel sospeso, | 595 |
sopra l’oscuro murmure dell’onde; forse il vegliante bersaglier, che, teso l’occhio nel buio, tra’ palmizi esplora un guizzo spento prima ancor che acceso; | |
alzano il capo a quel trillar d’aurora, | 600 |
levano gli occhi all’improvvisa romba, all’improvvisa nuvola canora. Era sepolta; e il nome sulla tomba era la lode simile ad oltraggio: | |
ma balzò su, come ad un suon di tromba. | 605 |
Balzò, sbocciò, come un fiorir di maggio. Ecco, sublime con la spada in mano, al mondo chiede il suo grande retaggio. Ogni straniero ella cacciò lontano, | |
ogni barbarie, gli altrui mali e i suoi, | 610 |
e il suo destino strinse a sé, romano. Per onde e sabbie i giovinetti eroi in sentinella, dànno il «Chi va là?». Quella ch’è dietro voi, ch’è innanzi voi, | |
ch’ è sopra voi: l’Italia, eroi, che va! | 615 |
Trad. GIOVANNI PASCOLI |
v. 32. Varrone, Rerum Rusticarum II 5: «gli antichi Greci, come scrive Timeo, chiamavano i tori
ἰταλούς...
».
[v. 74. Il 20 aprile, giorno che precede le feste Parilia, il sole lascia la costellazione dell’Ariete ed entra in quella del Toro. Vedi Ovidio, Fasti 713 sgg.]
v. 94 sgg. Varrone, luogo cit.: «Altri scrissero che Ercole dalla Sicilia inseguí sin là uno splendido toro che aveva nome Italo...».
v. 108 sgg. Cfr. Omero, Odissea XI 601 sgg.
v. 170 sgg. Virgilio, Eneide VI 659.
v. 212 sgg. Tito Livio, Storie XXI 22.
v. 305 sgg. Nazario, Panegirico a Costantino 22 sgg.