Domenica 20 dicembre 1998    scrivimi@mauriziopistone.it    strenua nos exercet inertia    Hor.

DONNA

1411

Donna, Femmina.

Femmina, il vivente del sesso più debole; comune agli uomini e alle bestie. Donna, secondo l’origine è titolo d’onore: quindi madonna.
– Il Boccaccio, in quel libro ch’egli scrisse contro a questa metà dell’uman genere, a cui forse egli, come tanti altri, era più che all’altra debitore: «Che cosa le femmine sono, delle quali grandissima parte si chiamano e fanno chiamar donne, e pochissime se ne trovano».
Donna è degradato nell’uso sino a dirsi: donna di servizio; ma chi dice, in questo senso, la mia donna, non sempre mente all’origine dei vocabolo. – Polidori.
Femmina, e d’animali, e di vegetanti, e di cose [Crescenzio: «Chiave femmina»]: donna, sempre della specie umana [«La donna della torma» per dire cavalla, è ardimento di Dante]. – Romani.

1412

Dama, Matrona.

Dama, donna nobile; matrona, donna autorevole, e per lo più di non giovanissima età. – Romani.

1413

Donna, Madonna, Madama, Dama.
Madamina, Damina, Signorina,
Madamigella, Madonnina.
La Madonna, Una Madonna.

Madama è del trecento, e non è punto più francese di tante altre voci simili all’una e all’altra lingua comuni; ma in antico dicevasi a donna rispettabile per nobiltà o per bellezza, perché la bellezza era allora titolo di rispetto [Usato dal Boccaccio, dal Pulci e da altri. I Napoletani dicono, e gli antichi Toscani dicevano pàtremo, mògliama. E noi tutti madonna. Della Vergine parlando l’accompagniamo all’articolo; e dell’imagine di lei, una madonna quando s’accenna all’imagine stessa, la Madonna, quando dall’imagine ascendesi col pensiero alla benedetta tra le donne, invocata. L’altare della Madonna; sull’altare è una Madonna divota]. Oggidì madama, in iscritto, suol darsi a qualche signora; e parlando, se non si tratta di forestieri, ha senso quasi sempre di celia; molto più quando si fa madamina, a giovanetta che vuol già fare la signorina, o a femminetta che contraffà donne d’alto affare; o a donnuccia poco men che di mal affare. Molto dunque ci corre tra madamina e damina.
Dama
è serbato, come ognun sa, a donna nobile. Ma: pare una dama, far la dama, al vestire, al tratto, ai lussi affettati, vale: contraffare, più che le gentildonne, le ricche. Senonché, maniere di dama, potrebbesi dire sul serio per lodare il portamento, con dignità disinvolto, di non ricca e non gentildonna. D’ogni ragazza poi s’usa in Firenze, la qual un giovane voglia o dica di volere sposare. E in questo senso le corrisponde il maschile damo.
A ragazza nobile o ricca, o, per compitezza, a qualunque siasi ragazza, dire madamigella, dove non si parli a Francese o a straniera che non intenda le proprietà del nostro linguaggio, è superfluo quand’abbiamo signorina [Ma di ragazza attempata i Francesi dicono madamigella o la damigella; né qui signorina ben suonerebbe. Né, nominando semplicemente giovanetta col nome di battesimo o del casato, direbbesi così comunemente la signorina Orsola, o la signorina Orsacchini, come i Francesi dicono Madamigella tale de’ tali]; questo meglio di ragazza e di fanciulla. Damina è donna nobile o ricca, maritata; quando non si dica: far la damina, in senso di celia, o di biasimo, per affettare le apparenze di condizione più agiata. Madonnina non è che l’imagine della Madonna. E di vergine, anco di donna con fattezze delicate e pure, dicesi che pare una madonnina; e anche una madonna.
Madonna è rimasto nelle campagne toscane; ed è la madre di famiglia nelle case de’ villici: come il nonno o il più vecchio della casa, in Toscana tuttavia dicesi, il sere. In alcuni dialetti, Madonna, la suocera; e il suocero messere.
Esser donna e Madonna vale: padrona assoluta, non avere sopraccapo, poter comandare in famiglia a suo modo [Boccaccio: «Sarei stata donna e madonna d’ogni lor cosa». Cecchi: «Ch’io faccia testamento, e ch’io ti lasci Donna e madonna d’ogni cosa». Vive anco in altri dialetti].

1414

Donnona, Donnone.

Accrescitivi ambedue della forma esteriore. Il donnone può essere meglio formato; onde dicesi: un bel donnone; e supponesi per lo più né vecchia né giovanetta. La donnona può essere men bene proporzionata, andare più in grossezza che in altezza; può essere attempatotta: e famigliarmente, anco di ragazza cresciuta dimolto oltre quel che l’età porterebbe, dicesi come per iperbole: diventa già una donnona, che donnona s’è fatta.

1415

Donnina, Donnino, Donnetta, Donnettina, Donnettaccia, Donnuccia, Donnucciaccia, Donnaccina, Donnicciuola, Donnucola,
Donnaccola.
Femminetta, Femminuccia.

Donnina, piccola donna; è vero diminutivo: donnetta, donna aggraziata, o che abbia del piacente. Quando ambedue hanno senso di vezzo, questo è il divario, che donnina desta per primo l’idea di amabilità, di modestia, di senno; la donnetta ha avvenenza, fors’anco civetteria, che risica d’essere un po’ sguaiata e triviale. Nella prima possonsi riguardare le buone qualità morali non disgiunte da certa bellezza; nella seconda, il pensiero si volta subito alla leggiadria delle forme: ma può talvolta esserci accompagnata l’idea d’operosità pronta, o di altro simile pregio. Diciamo: cara donnina; bella donnetta: Donnetta che sa il fatto suo, si sa dare le mani attorno. Quest’ultima ha però talvolta, senso non buono, come in Frate Giordano: «Trovandosi in compagnia di certe altre donnetta di malo affare». Donnettina non soffre mal senso; o è di vezzo o di lode o è di semplice piccolezza. Degli ultimi gentiluomini veneti, dico dei più degenerati, facevasi proverbialmente il ritratto in tre parole: Messetta, bassetta, donnetta; pratiche di pietà, giuoco e spensieratezza, fiacchi e facili amori.
Donnino, se di donna fatta, è più diminutivo e più di vezzo che donnina; come cassettino è più piccolo di cassettina. Un bel donnino, è più snello a dire e a vedere che bella donnina; e c’è donne non tanto piccine che si diranno donnine, alludendo alle qualità loro più spirituali che corporee; donnini no. Quindi è che a bambina che abbia un fare da donna, dicesi ch’è un donnino.
Donnuccia, donna piccola o da poco; e se ne fa donnucciaccia, che dice, oltre a condizione abietta o a struttura misera, animo turpe. Ma donnettaccia dice peggio per il notato tristo senso di donnetta. Donnaccina, donna di poco cervello e di poco conto, che sta su tutti i chiacchiericci; e si dice pure, d’uomo ch’abbia somiglianza con donne siffatte. D’uomo o pettegolo o effeminato, o ch’abbia altro dei difetti apposti alle femmine, dicesi altresì donnicciuola o donnetta. Donnetta è qui il men dispregiativo de’ due. Dell’effeminatezza meglio direbbesi femminetta. Donnicciuola, donna di bassa condizione, debole di spirito con de’ pregiudizii. La donnucola è di condizione ancor più meschina che la donnicciuola; ma d’uomo non si direbbe in dispregio, come l’altro. Donnaccola è il peggio di tutti, perché, oltre al significare donna della plebe (e questo non sarebbe punto male), vale donna sudicia. Donnicciuola può intendersi della plebe, ma non dispregevole [Malmantile, 7: «Qualsivoglia donnicciuola Porta la dote ed il corredo appresso»]. – Meini.
Il Manzoni, di femmina povera, ma venerabile e per la povertà e per la pietà, ben dice femminetta. Femminuccia ha sempre senso di spregio, e potrebbesi fors’anco d’animale debole o inetto all’uso.

1416

Donna trista, Trista donna; Cattiva donna, Donna cattiva.
Mala femmina; Trista, Cattiva femmina.
Cattiva moglie, Moglie cattiva.

E mala e trista femmina sono usitati perché le parole di dispregio abbondano sempre contro il più debole, sia donna traviata, sia suddito malcontento. Mala femmina, femmina di mal costume; cattiva femmina, inimichevole, animosa, acre, ostile; trista femmina, maliziosa, maligna, malvagia, portata alla frode sfacciata, alla vile violenza. C’è delle male femmine che son meno cattive di quelle che han nome di femmine oneste.
Femmina mala, nessuno direbbe; bensì femmina cattiva, e femmina trista. Il primo preponesi sempre. Dicesi poi cattiva, non mala, donna e trista donna, e donna trista e donna cattiva. Ma l’aggettivo, secondo ch’è preposto o posposto, talvolta dà senso differente. Donna trista denota meglio la furberia, la malizia; trista donna, l’intima malvagità. Cattiva donna, s’accosta al senso di mala femmina; donna cattiva denota piuttosto malignità.
Cattiva moglie, non atta, male adatta agli uffizii della vita coniugale; moglie cattiva, moglie d’animo reo, di costume non buono. C’è delle mogli cattive che per la casa non sono cattive mogli; hanno cura del marito, de’ figliuoli, delle cose domestiche. C’è delle donne non cattive, che sono cattive mogli perché bacchettone, pettegole, disattente.

1417

Meretrice, Prostituta.

La prima guadagna del corpo suo, mereo; la seconda, per guadagno o per libidine, si mette in mostra, e provoca a sozzure, prostat: è più comune, più sfacciata. Taide meretrice, Messalina prostituta. Ogni abbracciamento venale è meretricio, prostituzione non è. Le meretrici di caro prezzo non sono prostitute; le prostitute da’ genitori o dai mariti, che nulla guadagnan per sé, non meritano l’altro nome. Le prostitute nei templi pagani per atto di devozione, meretrici non erano; e si credevano far opera meritoria.
Dante chiamò le ricchezze «false meretrici»; e per esse prostituiscesi l’anima. Diconsi meretricii gli ornamenti del dire, lisciati, affettati, e dicesi prostituire l’ingegno ai potenti.

1418

Uomo, Persona.
Omone, Omaccio.
Omaccino, Omaccione, Omacciotto, Omettaccio.

Persona comprende e uomini e donne. Casa abitata da tante persone. Buona persona, d’uomo è più comune però, che di donna.
Persona è uomo considerato in certa condizione, con certe qualità relative ad altri uomini, con certi diritti ed uffizii [Persona, in origine, maschera. I diritti e gli uffizii sociali mascherano, sovente, la vera natura dell’uomo]. Quindi, persone morali chiamiamo le società dalla legge riconosciute o dal comu ne consenso. Quindi, i diritti personali e i reali. Quindi, la differenza tra brav’uomo, e brava persona. Il primo denota meglio le qualità dell’uomo in sé; il secondo, qualità sociali. Omone, uomo di grosse membra e d’alta statura. Anche: un bell’omone. Omaccio, vale uomo poco buono, di cattiva indole, o di burbero temperamento; due cose che troppo spesso confondonsi, e non sempre a torto [Gelli: «Chi non toe moglie alla fine è tenuto un omaccio». Galileo: «Uomacci tristi e senza discrezione»]. Un omino sottile, esile, allampanato, può essere bene un omaccio. Anzi degli omacci ve n’è, forse, tra’ magri più che tra’ grassi. Omettaccio, uomo piccolo di corpo, e cattivo d’animo: eloquente parola.
Omaccino, uomo di statura grande, e non tristo. Gli è un vezzeggiativo, dispregiativo questo, che non si spiega se non cogli esempii [Salvini: «Quel buon omaccino del C... d’onorata ricordanza, volendomi, per sua grazia, bene...»; «E ti par Cambio uomaccino da chetarlo colle promesse?»]. Omaccini chiaman taluni que’ ragazzi che voglionsi far diventar uomini prima del tempo, a forza di studii pedanteschi e laboriosi.
Omaccione, uomo grosso di statura e di membra, ma più sformato che non sia l’omone. Un bell’omaccione, non si direbbe comunemente [Firenzuola : «Questi così fatti omaccioni furono sconoscenti de’ benefizii ricevuti da Giove»]. Non è però epiteto che riguardi le qualità dell’animo; che anzi all’omaccione si può dare il titolo di buono [Allegri: «Savii e dabben omaccioni; favello or de’ Romani...»].
Omacciotto, uomo grosso di membra, ma non molt’alto.

1419

Mascolino, Maschile, Maschio, Virile.
Femminino, Femminile, Femmineo, Donnesco.
Femminile, Effeminato.

Mascolino, termine di grammatica, contrapposto al genere femminino. Dicesi anco: il sesso mascolino, ma meglio maschile. E anche, genere maschile negli usi grammaticali: ma non si direbbe sostantivamente, come dicesi che quella tal voce comporta il mascolino; che nel mascolino suona meglio.
Maschio s’adopera come sostantivo; aggettivamente, ha senso, sovente, figurato. Voce maschia, di forte accento, che scuote ed eccita; maschio viso, significante fermezza e ardimento; maschio aspetto, di guerriero; maschia indole, stile maschio, spiriti maschi. Anche di donna: ha del maschio.
Virile è sovente opposto non tanto a femminile, quanto, tranne qualche eccezione, a infantile, o giovanile o senile. Maschile, ch’è proprio, o si conviene, a maschio senza riguardo all’età o all’altre relazioni notate. Di voce non da femmina, maschile; di voce non da ragazzo, virile. Viso di donna bronzino, è maschile [E tra’ contadini è lode dire d’una ragazza: l’è un omaccio; ed anche. più rozzamente: l’è un verro; volendo significare che la è robusta, operosa. – A.]; viso di giovanotto barbato, è virile. Così nel traslato: stile maschio, non effeminato, non sdolcinato, non cascante: stile virile, stile non minuzioso, non ambizioso, non sopraccarico d’ornamenti.
La differenza notata tra mascolino e maschile è analoga a quella che corre tra femminino e femminile; cioè, che nel senso grammaticale femminino può essere sostantivo. Negli usi comuni, femminino suona talvolta celia o biasimo; arte, astuzia femminina; femminile grazia, bellezza. Forme femminili, proprie dei sesso; contrapposto a maschili: non, femminine, se non di maschio, per biasimo o per dispregio. Può uomo, segnatamente giovane, avere forme, sembianze femminili. Certe maniere femminili di timidità, o anco di soverchia delicatezza, possono non essere di uomo molle e effeminato. Certi uomini hanno voce femminile; di certe musiche il canto è effeminato. Femmineo è men comune, non morto però. Il sesso femmineo. Femminei lavori, da femmina, non troppo laboriosi: lavori femminili, di que’ che soglion fare le femmine. Scuola femminile, non altrimenti. Donnesco, che in antico valeva signorile, di donna parlando; ora suona non assai riverente, e s’approssima al già notato di femminino: ma non è della lingua parlata.

1420

Scapolo, Celibe, Vergine.
Virgineo, Verginale, Vergine.

Scapolo, d’uso più famigliare; celibe, più legale. Celibe indica stato più durevole: denota gli effetti civili e morali del non aver moglie. I moralisti ragionano del celibato libertino; gli scrittori ecclesiastici, del celibato de’ preti; gli statistici contano il numero de’ celibi; certi economisti, stolidamente creduli, predicano il celibato prudente, per tema che il mondo non basti a’ nascituri.
Scapolo, dell’uomo solo; celibe, anco di donna, ma non usitato. Celibe, disse Orazio, il platano; e chi lo vorrà dire scapolo? Scapolo suona: uomo libero dai pesi coniugali; celibe, uomo dalla professione, o da voto o da proposito deliberato, condotto a star senza moglie: come prete o soldato. Il Filosofo celibe del Nota è tutt’altro che filosofo; vuole restar celibe perché desidera goder le licenze dell’uomo scapolo. Ma se filosofia è seccatura, il celibe del Nota è filosofo.
Può l’uomo essere scapolo e celibe, non vergine; può la verginità conservarsi nel vincolo coniugale.
Virgineo, di vergine; verginale, e di vergine e degno di vergine. Virgineo corpo, anima verginale. Verginale anco il viso di maritata, se gentilmente mode sto. Rossore virgineo, di vergine; verginale, qual può convenire a vergine, fosse anco d’uomo. Meglio che anima virginea, anima verginale. Cuore vergine, in senso più lato, non tocco da passioni: ingegno vergine, non corrotto dall’arte. Vergine ha, poi, altri usi figurati di cose corporee, che virgineo e verginale non hanno.

1421

Maritare, Collocare in matrimonio, Allogare.

Maritasi e male e bene; maritasi una fanciulla turca dandola per terza o per quarta moglie. Collocare in matrimonio suppone stato, d’ordinario, migliore, in apparenza almeno. Di gente povera non si direbbe, che son collocate, se le non si sposano a più ricco di sé [Il popolo in questo caso dice sempre allogare. E non importa che le ragazze siano maritate a più ricchi di loro perché le si possan dire allogate. Bensì allora direbbesi che le sono allogate bene. – A.]; e allora forse si slogano. Molti per collocar bene le figliuole le maritano male.

1422

Matrimonio, Nozze, Sposalizio, Maritaggio, Connubio, Coniugio, Contubernio, Imene, Imeneo.

– Il matrimonio è un patto e religioso e civile, per il quale uomo non legato da tale vincolo s’unisce a donna del pari libera, con mutuo consenso, per fine di procreazione e di consorzio. – A.
Nozze, le feste che accompagnano la celebrazione del matrimonio [Boccaccio: «Fatte le nozze belle e magnifiche». Ariosto: «Splendide e reali»]; Sposalizio, la celebrazione degli sponsali, cioè della solenne promessa di matrimonio [Maestruzzo: «Lo sposalizio è una promessa delle future nozze, ed è detto sposalizio da spondendo, promettere»; «L’arra dello sposalizio è l’anello, pecunia, ovvero altre cose date alla sposa»]. Ma nell’uso dicesi: sposalizio, e nozze, anco per matrimonio; le sponsalizie (sottinteso cerimonie o simile), sempre della promessa: ma gli è meno usitato. Nello sposalizio però e nelle nozze, in senso più affine a matrimonio, intendesi qualcosa di festivo e gentile. Onde allo sposo si domanda, non: quando si fa catesto matrimonio? ma: coteste nozze? E: lo sposalizio di Maria, no: il matrimonio.
Matrimonio, è il contratto civile e il sacramento ecclesiastico. Maritaggio, è l’atto dello stringere il matrimonio. In Toscana dicono e sposalizio e maritaggio, ma il primo indica la celebrazione materiale, l’altro il contratto. Maritaggio non ha però mai il senso di sacramento.
Connubio, latinismo legale, indica il diritto del cittadino romano a prender moglie; poiché i Romani distinguevano il connubio dal matrimonio e dal contubernio. Il primo era di soli i cittadini romani; il secondo, de’ liberi, ma non cittadini; l’ultimo, degli schiavi: il primo, di diritto civile; il secondo, di diritto delle genti; l’ultimo, naturale, come intendevano il diritto naturale le leggi di Roma. – Romani.
Coniugi è quasi forense; ma di nobile origine, perché non viene da iugum, anzi con esso da iungo. Il De Maistre aveva notato che i Russi chiamano suprug il marito, e l’hanno anco i Serbi, e corrisponde nella radice al coniux latino. Coniugio, latinismo non usato se non quasi per celia; ma vive coniugale, e coniugalmente; e rimane alla grammatica coniugare e coniurazione, che comprovano come a radice vera sia iungo; così come vinculum non viene da vimen, ma e questo e quello da vieo, che nello slavo ha consiinile suono e senso. Connubio da taluni usasi in traslato, ma è forma pedantesca; e forse per questo a certi politici garba. Ma nel senso storico delle nozze romane avrebbe proprietà.
Nozze, le cerimonie festive innanzi e dopo il matrimonio; onde i modi: andare a nozze, esser di nozze, giorno di nozze.
Nozze, delle piante, non matrimonio. – Volpicella.
Imene e imeneo rimangono al verso, e non più parlando di cose moderne (come anni fa si soleva), ma di riti pagani. Imene può meglio indicare le nozze, imeneo il matrimonio. Imene può avere il secondo senso; non imeneo il primo così convenientemente. Imeneo è lo stato coniugale; onde dicevano: le leggi dell’imeneo. Imeneo ha plurale; non l’altro. – A.

1423

Marito, Sposo, Consorte, Compagno, Coniuge.

Marito riguarda più specialmente l’unione corporea [Mas]; sposo (qui non si tratta delle sponsalizie precedenti alle nozze), il vincolo sociale [Spondeo]. Marito risponde a moglie, sposo a sposa. Sposo è perciò parola più gentile, e denota uguaglianza; marito, l’autorità del maschio sulla femmina. Nel marito riguardansi più specialmente i diritti e i doveri; nello sposo, gli affetti. Gli uomini prima dimenticano d’essere sposi che d’esser mariti. – Roubaud.
Secondo l’origine, consorte chi ha con noi comune la sorte della vita, o una sorte anco di durata men lunga, purché non brevissima e purché d’importanza; onde nel Tasso l’uno chiede all’altro essere consorte nella gloria e nella morte; e in Dante «anime consorti» sono le insieme beate in cielo, quivi elette per eterna sorte, come dice altrove egli stesso. Bello, dunque, applicare al matrimonio questa parola; senonché in tempi di dissoluzione cercasi la sorte della ricchezza, e il consorzio pigliasi nel senso del ius civile, e si fa più vile ancora del consorzio delle acque. Ma propriamente la voce consorzio, senz’altro, non dice la congiunzione di due consorti in vincolo coniugale.
Consorte, dunque, è più intimo che compagno, nel più comune senso; ma anche il marito e la moglie dicono l’un dell’altro: il mio compagno, la mia compagna; ed è modo d’affetto verecondo; né un terzo direbbe la compagna del tale. Ma d’animali parlando, specialmente se gentili, come colombe, uccellini, cerbiatti, compagno e compagna suona gentile [Dante: «Il colombo si pone presso al compagno»].

1424

Donna, Moglie, Consorte.
La mia moglie, Mia moglie.

Consorte, e alla moglie e al marito [Consorti però non si direbbe, per indicare insieme ambo i coniugi. Consorti ha il senso che dichiarasi accanto a quel di parenti]; maniera tutta cristiana d’intendere il matrimonio. Ma perché forse non da tutti intendevasi a questo modo, la bella voce ambì divenire voce scelta, e con levarsi in signoria, venne a perdere popolarità; sicché oggi la consorte pare una moglie in guardinfante. Io desidero che un giorno e il ciabattino e il senatore [Redi: «La illustrissima signora marchesa sua consorte». Quando scriveva queste cose, il Capponi, non mai marchese alla maniera solita de’ marchesi, non prevedeva d’avere a essere senatore] dicano: la mia consorte, e sappiano e professino ciò che dicono.
Poiché la donna tra i signori venne a significare la serva, si vergognarono di chiamare a questo modo la moglie; eppur la mia donna era locuzione veramente signorile e di buon conio; ma dacché l’Alfieri e altri l’adulterarono, a’ soli mariti che non sappian leggere pare oggi onesto l’usarla. Tutti ora dicono: la mia moglie [Il popolo dice più volentieri la mia moglie; gl’inciviliti, mia moglie]. E benché moglie nell’origine latina fosse quasi donna senza dignità, mi piace questo modo più assai che non il chiamarla, come fanno i mariti oltramontani, madame col casato; usanza sguaiata, che sembra togliere al matrimonio con l’intimità ogni grazia, e con la grazia ogni altezza; e per cui la signora di casa viene a confondersi con le altre che si radunano nel salon. Dicano dunque i mariti, così alla buona: la mia moglie, sinché non tornino in credito e donna e consorte. – Capponi.

1425

Ripudio, Divorzio.

Il divorzio annulla il matrimonio o per libera volontà de’ coniugi, o per le cause che, secondo le varie legislazioni, valgono a sciogliere il vincolo. Il ripudio è dato dall’una parte all’altra; né mai la volontà di tutti e due v’entra, almeno in modo manifesto, in faccia alla legge. Il divorzio si fa tra marito e moglie; il ripudio facevasi in Roma anco tra promessi sposi. Modestino: «Divortium facere dicimus; repudium mittere, renuntiare vel dicere». – Popma.
Libello del ripudio; consuetudine ebraica. Ripudiare ha altri sensi; divorzio ne ha taluno, ma meno usitato. Tra opinioni o animi legittimamente e strettamente uniti se accade separazione irrevocabile o quasi, potrà dirsi divorzio [Verto, vorsum]. Notisi che divorzio ha la stessa origine di divertimento e di perversione, d’avversione e di conversione.


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